Sì, la bottiglia avrebbe anche un'etichetta ma non mi sono preoccupato di farmela attaccare...
Prima sul più
prestigioso ed
esclusivo forum di birra italiano – per scrivere si paga l'iscrizione all'associazione e lui è il vicepresidente –
lo leggi chiaramente alticcio scrivere della contemporanea bevuta di due mitologiche birre britanniche degli anni ’70. Già lì mangi la foglia, certe bottiglie non si stappano a casaccio. Poi te lo ritrovi una mezzora dopo su Skype che ti annuncia, oramai nei fumi, l’arrivo del secondo figlio. Mentre scrive si sta scolando una Raptorbach. La terza. Tu, inflessibile, trovi pure modo di cazziarlo per aver scritto quel nome sbagliandolo. Che eroe. E così stasera, dopo aver fatto il mio dovere facendo onore con un filetto di bue ad un nebbiolone di montagna, ho pensato di salutare anche io il nuovo arrivato Keynan affiancandomi al brindisi ideale con cotanta birra.
Appendo come al solito qualche nozione con le puntine, prima o poi ci sarà occasione per approfondire. Produttore:
Birrificio Montegioco, abbarbicato nei Colli Tortonesi, terra di grandi vini e di grandi personaggi. Birraio: Riccardo Franzosi, l’autarchia ed il legame col territorio fatti persona. Birra: Dolii Raptorbach. Nome singolare, direte voi. Per spiegarlo occorre fare un passo indietro.
In principio in quel di Montegioco si facevano quel pugno di birre, ben fatte, che trovate nel portafoglio di tanti birrifici sparsi per il mondo, vale a dire una blonde – blanche – weisse – strong ale – imperial stout in ordine più o meno sparso. Birre con luppolature gentili e di grande equilibrio e bevibilità. Ben presto arrivano i primi esperimenti con i prodotti del territorio, pesche, ciliegie, mosto di barbera e timorasso. Poi un giorno una cotta malandrina di Demon Hunter – una strong ale a cavallo fra Belgio e Scozia – prende la pericolosa china dell’infezione lattica. Riccardino, invece di lavandinare come direbbe il regolamento o di rilasciare una Sour Edition a prezzo doppio come fa talvolta qualche
furbaster, si gioca ancora una volta la carta del territorio. Chiede all’amico Walter Massa una botte usata di Barbera Bigolla, ci butta dentro la birra infetta ed aspetta, seduto su una sedia, di vedere dove andrà a parare. E’ il cosiddetto
Metodo Cadrega: siedi, taci e aspetta.
Dizionario padano: cadrega = sedia.
Quello che ne uscì piacque ed entusiasmò a tal punto che la Dolii Raptor, che vorrebbe dire ladro di botti, divenne in breve tempo uno dei cavalli di battaglia del birrificio, contesa dagli appassionati italiani e
d'oltreoceano. Cominciò ad essere prodotta con una certa regolarità, ovviamente dopo una prima fermentazione “standard” e senza più infezioni lattiche involontarie, ma esposta comunque alla contaminazione spontanea di batteri e lieviti selvaggi presenti nell’ambiente durante la successiva permanenza in botte.
Dice con modestia Riccardino che in fondo fanno tutto i lieviti, lui non fa altro che dar loro da mangiare. Sarà così ma con gli anni ricette e maturazioni in botte sono state affinate: le iniziali permanenze di alcuni mesi oggi arrivano anche a tre anni e la produzione di queste tipologie segue un preciso ciclo stagionale, che guarda caso è simile a quello del lambic: produrre durante la stagione fredda per fare in modo che le temperature garantiscano la corretta sequenza di intervento dei vari lieviti e batteri coinvolti nella fermentazione.
Nel 2008 una cotta di Dolii prodotta durante l’estate venne presto aggredita dai batteri acetici. Fedele al Metodo Cadrega, Riccardino decise di stare al gioco ed attese ben 3 anni. Quella botte è finita in bottiglia nel 2011 e nel mio bicchiere stasera.
Morbida e ruvida al tempo stesso, di un bell'ambrato vivo, opalescente. Il naso sontuoso racconta di amarena, fragola, prugna, di malti caramellati, di tamarindo che fa tanto
Red Flamish, di rotondità alcolica. Parla anche di spigoli, quell’aceto balsamico che – in risultati come questo – è soprattutto un pregio e ma anche un leggero solvente, silicone, vinavil se preferite, che sta lì, fratellastro dell’acetico, ad intimorire pur senza disanimare. Tant’è che in mezzo a tale sontuosa complessità addirittura si ricombina in una subdola mandorla amara. In bocca ritrovi tutto il vinoso della nobile botte di cui è figlia, una succosa opulenza ricolma di frutto e caramello che contrasta fieramente l’acetico, prima che questi nel cavo orale prenda il sopravvento smerigliandolo. Anche qui, una nota di legno secco e amaro ci porta, come
Pierfrancesco Pacini Battaglia, un gradino sotto Dio. Non una birra perfetta, non una birra immediata, non una birra per tutti, ma una birra enorme, epifanica. Come scrisse il
buon Schigi, elegante e bastarda come queste birre DEVONO essere.
Il nome? Si riempiva
l’arca del
Colonna e Riccardino telefonò: “Ti mando una birra tipo la Rodenbach, ma più buona”. E Raptorbach fu, in omaggio alla
grande acetica di Roeselare.