Oramai è cosa nota nel gastromondo: fra tutte le tribù di disadattati casi-umani iperspecialisti del commestibile, quella degli appassionati di birra è sicuramente la peggiore, la più intransigente, feroce, aggressiva e spietata. Sono un branco di lupi assetati di sangue, guidati da alcuni maschi alfa frugano il web senza sosta in cerca di nuove prede da dilaniare, pronti ad esporre al pubblico ludibrio la minima imprecisione dell'inesperto. Vere e proprie bestie selvatiche, segnano il territorio, non ammettono intrusi. Sono invincibili, dei mostri dotati di memoria indelebile e onniscenza sovrumana da ogni punto di vista: storico, gustativo e persino produttivo, spesso sono pure homebrewers. Impossibile non soccombere, ogni resistenza servirà solamente a prolungare lo strazio.
Le vittime preferite? Quegli esperti sommelier che con malcelata faciloneria e superficialità pensano di poter travasare nel sempre più florido mondo della birra artigianale semplicemente rispolverando il loro bagaglio di tecniche di degustazione enoiche. Ne ho già visti molti cadere sotto le asce bipenni dei birrofili, qualcuno - lo ammetto - l'ho finito con le mie stesse mani. Altri si sono ritirati in buon ordine nel territorio di origine, non meno privo di odio e veleni, ma meno selvaggio, dove le contese si risolvono con un garbato duello, senza belve che si attacchino alla giugulare dell'imperizia e dell'improvvisazione.
Sono in fondo un uomo buono e ho tante miserie da farmi perdonare. Ho pensato di stilare una lista minima di termini da evitare accuratamente nel campo minato del web birrario. Vi aiuterà ad attraversarlo senza troppi danni. A buon rendere.
Doppio e triplo malto. Lo abbiamo già
detto,
doppiomalto birrariamente parlando non vuol dire NULLA. Non identifica una stile, non dà alcuna indicazione sulla tipologia, il colore, il sapore della birra che state ordinando, sappiamo a malapena che la birra in questione non è propriamente leggera. La "fortunata" dizione nasce dal vocabolario del fisco italiano riguardo alle accise, ignorato ovviamente all'estero e in qualsiasi descrizione birraria sensata: avranno usato un po' più di malto (o di zucchero), non necessariamente il doppio, e quindi? Rilanciare al rialzo con
triplo non vi porterà migliore sorte.
Stile trappista e stile abbazia. Due termini facili facili per scatenare ira e sdegno. Trappiste sono le birre prodotte dall'omonimo ordine monastico all'interno delle mura del monastero secondo un disciplinare preciso. Tipicamente belghe, ce ne sono di chiare, scure, forti, speziate... ma se un monastero trappista volesse fare una Pils o una IPA, sarebbe trappista pure quella. Allo stesso modo una birra d'abbazia non è altro che una birra prodotta da un monastero di religiosi o sotto la loro supervisione, senza ulteriore informazione circa la qualità, la tipologia, il colore, ecc. Stiamo nei paraggi di doppiomalto...
Birra cruda. Tanto diffuso quanto obbrobrioso, se lo usate un colpo di mazzafrusto alla schiena non ve lo toglie nessuno. Per qualcuno le "birre crude" sono quelle di frumento, altrove sono più in generale quelle artigianali. Come se la mancata "cottura" producesse chissà quali benefici. Ovviamente OGNI birra viene "cotta", vale a dire ammostata a temperature elevate e - nel 99.99% dei casi, il caso 0.01% ve lo risparmio - bollite, un birrificio non fa carpacci di malto. Di fatto con crude si intende, spesso a sproposito e senza cognizione di causa, birre "non pastorizzate" e allora perché non dire... "non pastorizzate"?
La Lambic e la Barley Wine. Misteri e deviazioni semantiche della lingua italiana che fanno venire l'orticaria ai talebani. Per qualche insondabile e inesplicabile motivo, nell'incertezza e nell'ignoranza, il 99% degli italiani posti di fronte alla necessità di articolare la parola Lambic ricorre all'uso del femminile. Sarà la nota galanteria che ci ha reso famosi nel mondo. Il problema è che IL Lambic è parola maschile e non per l'ordine di qualche pasdaran, ma appunto perché nel francese natio è chiamato LE Lambic, maschile appunto. Ancora più insondabile il problema Barley Wine: certo l'inglese non fa distinzioni di genere, ma non si capisce per quale motivo IL "vino d'orzo" debba trasformarsi in femminile se detto in lingua straniera.
Birra gialla, rossa, marrone. Qua non si transige e vige un codice ferreo: rosse sono solo le birre acide delle Fiandre Occidentali. Tutte le altre possono solamente declinare le varie tonalità dell'ambrato, pena le 100 nerbate fantozziane. Sicuramente ineccepibile da un punto di vista spettrofotometrico, è una rigidità cromatica che fa paura anche a me questo odio verso il salmone, il vermiglio, il carminio, lo scarlatto, il granata, ma non oso confessarlo. Giallo e marrone invece non si possono sentire, troppo grevi: fate i bravi e abbiate un po' di classe, dite paglierino e tonaca di frate come fanno tutti.
Spuma, presa di spuma. Se volete far imbufalire un integralista birrario, non ce n'è come riciclare il vocabolario da sommelier che avete acquisito in qualche corso. Probabilmente non vi impallinerà, ma dentro coverà tutto il disprezzo che un essere umano è in grado di distillare e non mancherà ovviamente di ridere alle vostre spalle con i suoi amichetti. Dovete sapere che fondamentalmente il birrofilo è un essere semplice e schietto, anche grezzo, da felpone di cotone più che da dolcevita di cashmere e foulard al collo. Al di fuori di qualche tecnicalità e dogmatismo, non ama vezzi e barocchismi semantici e tende a chiamare le cose con il loro nome: la schiuma si chiamerà... schiuma, mentre l'orrenda "presa di spuma" è semplicemente la rifermentazione.
Fecce nobili. Vedi sopra. Nella birra non esistono fecce, men che meno nobili o plebee. Anche qui l'animo schietto del birrofilo tende a chiamare le cose col loro nome senza imbellettare, avremo quindi lieviti sul fondo, poi anche proteine, residui di luppolo e non meglio specificata "fondazza". Tutta roba che in genere non è affatto apprezzata, men che meno il lievito in autolisi, e viene spurgata dai troncoconici o filtrata per quanto possibile.
Facile beva, corsa breve, attacco abboccato, P.A.I., ecc. Vedi sopra, tutta retorica da sommelieri che fa partire l'embolo al birrafondaio. La "beva" è una sirena seducente e aberrante che nel mondo della birra si sta giustamente cercando di estirpare: beverina suona più modesto, ma ricordatevi sempre l'animo semplice del birrofilo. La corsa breve è quella che l'appassionato di birra fa la domenica nel patetico tentativo di smuovere la panza accumulata in litri e litri di bevute settimanali. Attacco abboccato è bordeline, sono due parole che prese singolarmente possono funzionare, ma assieme fanno prudere le mani. Nessun esperto di birra sa cosa sia l'acronimo P.A.I. e vi guarderebbe come un mentecatto: usate persistenza e retrolfatto e non correrete rischi.
Perlage, carbonica. Nella birra, a torto o a ragione, nessuno presta molta attenzione a forma, frequenza e traiettoria delle bolle che peraltro quasi sempre sono presenti nel bicchiere. Sfoderare disquisizioni sul perlage, parola dal suono troppo raffinato per un gretto birrofilo, servirà solo a farvi stanare, guadagnando diffidenza e disprezzo latente. Riguardo alla CO2, noi usiamo un termine un po' astruso per indicare l'atto della sua creazione durante la rifermentazione: carbonazione. Peraltro la birra spesso non viene nemmeno rifermentata ma saturata del gas in maturatori isobarici. Effervescenza e gasatura sono termini un po' generici, da idrolitina e acqua minerale, ma di basso profilo e se utilizzati si chiuderà un occhio. Con carbonica invece la forcata è assicurata.
Volatile. Nessun amante della birra ha la minima idea di cosa si intenda per volatile, io stesso ho appena finito di googlare, se ne parlate ad un publican vi farà arrivare al tavolo una faraona. Siamo gente di provincia, noi lo chiamiamo acetico.
Terroir e lieviti autoctoni. Croce e delizia. Nella birra il terroir, inteso come intimo legame agricolo fra materia prima e prodotto finale, semplicemente non esiste. Il motivo è chiaro: la materia prima a volte è fungibile, può comunque viaggiare ovunque e mischiarsi con materie prime di altri luoghi ed è del tutto possibile replicare la birra tradizionale di un luogo dall'altra parte del mondo. Lo stesso vale per i lieviti: tranne poche fermentazioni spontanee tipicamente acide, i lieviti sono SEMPRE ceppi selezionati, e non è una cosa brutta o poco naturale, nella birra funziona così, è la natura del prodotto, ad ogni stile il suo lievito. C'è un dibattito flebile e velleitario su ciò che possiamo definire la territorialità e l'identità specifica di alcune birre, o di alcuni birrifici, che aggiungono ingredienti extra alle ricette provenienti dallo specifico territorio in cui operano. È un dibattitto a cui può accedere solo la casta dei Maestri Illuminati, che mai si sognerebbero di parlare di terroir. Non ci provate.