Abbiamo assaggiato le lingue di merluzzo. Breve storia dei giovani "taglia lingua"
Del merluzzo si mangia anche la lingua, di solito fritta. Lo abbiamo scoperto alle Lofoten e l’abbiamo provata. Ecco com’è andata.
Å è il paese con il nome più corto al mondo, è famoso per questo, una sillaba, fine. È alle isole Lofoten, all’inizio delle Lofoten, dove cominciano tutti i viaggi alla scoperta di un mondo altro, di una natura infinita e dove, il cibo, per una volta non è al centro.
Å è un villaggio di pescatori silenziosi, di gabbiani rumorosi, 150 anime i primi, molti di più i secondi. Qui si pesca principalmente il merluzzo, lo skrei, il merluzzo artico, ma anche grandi ricci e altri pesci non ben identificati (perché i pescatori non sono socievolissimi, appunto).
Ad Å c’è la curiosa abitudine di appendere qua e là scalpi secchi di merluzzi a penzolare al sole, forse per invitare i turisti a non fare troppe domande.
Å è una cartolina, quello che ci si aspetta dalle Lofoten, casette rosse di pescatori, ora Rorbuer per i turisti, che si specchiano nei fiori e cieli tersi. Amore puro.
In questo scenario potente e convincente vuoi non provare le lingue di merluzzo? Sono una prelibatezza locale che nasconde una storia da film, perché le lingue ai merluzzi gliele "strappano" i bambini: è una pratica remunerativa, si chiama tungeskjaering, una specie di passatempo del dopo scuola, esercitato dalle anime innocenti dell’isola, i tungeskjærerne, ovvero "i taglia lingua" (la trama del film ce l’abbiamo già).
L’idea di assaggiarle incontra qualche resistenza ma la lingua è famigliare alla nostra cultura, che differenza fa se di manzo o di merluzzo. L’immaginario porta ad aspettarsela impanata e fritta, croccante, semplice. Il fritto con la funzione di attenuare la consistenza gelatinosa, la lingua avrà la texture della lumaca, no? (che poi non è proprio solo la lingua ma non andremo oltre nella descrizione dell’anatomia di una leccornia locale).
La ordiniamo in un grazioso ristorante da pochi km da Å, a Sørvågen, e arriva così, come in foto, come un’insalata gourmet a Milano. La qualità delle materie prime nei ristoranti locali che abbiamo provato è molto alta, come l’estetica dei luoghi, la pulizia e la cortesia dei gestori. Anche i prezzi, molto alti, che significa tra i 40 e 50 euro in media per un piatto a cena.
Spesso abbiamo sperimentato una tendenza ad accostare o aggiungere ingredienti oltre misura, come un giovane chef che è andato a pranzo al Noma e comincia a darci dentro. Troppi, troppo distanti fra loro, alla ricerca di sorprese e affinità attraverso delle forzature, come in questo caso.
Le lingue erano caramellate, si percepiva il gelatinoso all’assaggio non smorzato dal fritto (che il fritto sa di fritto e aiuta) ma accanto al dolce, rafforzato da una crema di mango (mango, mango, siamo al Circolo Polare). Semi, insalatina e altri ingredienti che abbiamo dimenticato per pudore.
Con le lingue è andata così, informatevi prima di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Ma abbiamo incontrato piatti di cozze, gamberi, aringhe, skrei e halibut semplici (o fritti), saporiti e abbondanti.
Ecco perché il binomio tradizione innovazione ci rende insofferenti.
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