Attualità

BAD | Birrificio o meglio birraio agricolo

pubblicata il 16.02.2012

  Ammetto che la disputa non è mai riuscita a scaldarmi l'animo. Fedele al più bieco utilitarismo monetarista, affezionato soprattutto alle mie tasche e seguendo l'ottica da consumatore che mi compete, delle diatribe fra microbirrifici "standard" e birrifici agricoli mi sono sempre ampiamente disinteressato. Chi voglia approfondire può partire ad esempio da qua (commenti compresi) per poi sbizzarrirsi. Per gli altri riassumo alla carlona: recentemente lo Stato ha introdotto la figura giuridica dei birrifici agricoli. Questi, a fronte di ottimi vantaggi fiscali, devono essere legati alle forme societarie dell'imprenditoria agricola e produrre in proprio una parte delle materie prime. Le forme attraverso la quale viene attuata questa produzione "in proprio" mi sfuggono, per mia deliberata ignoranza. La maggior parte dei birrifici "standard" che - si spera - pagano imposte "standard" lamentano i soliti magheggi normativi all'italiana per l'appartenenza al club "agricolo" e l'ennesima inopportuna sovvenzione al settore primario che alimenterebbe pratiche di concorrenza sleale nei confronti di loro, figli di un dio minore. Proveniendo dalla campagna ed avendo ben inciso nella memoria il ricordo di pertiche e pertiche di soia lasciata a marcire nei campi solo per intascare le sovvenzioni europee alla semina, o degli ettolitri di nafta agricola impiegati dagli amici per placare la sete atavica dei primi avanguardistici SUV, o decenni di finanziamenti protezionistici a ufo sponsorizzati dai contribuenti europei, non me la sento di dar loro torto a priori. Ci sarebbe da andare a fondo, nelle sedi opportune, su queste scelte di politica economica. Qua però ci interessa prima di tutto un'altra cosa: quello che ci ritroviamo nel bicchiere. Procediamo. Ho finalmente intercettato un sedicente birrificio agricolo. Sedicente il birrificio, non l'agricolo, che da quel punto di vista il Birrificio Agricolo Duchessa di Travo fa sicuramente sul serio. Quanto al birrificare, se ho ben capito dalla brochure, l'azienda agricola si avvale della collaborazione di un esperto homebrewer per il disegno delle ricette e si appoggia per la produzione presso un birrificio terzo. La produzione è stata curata fino a pochi mesi fa da Nicola Zanella, vecchia conoscenza dell'underground birrario nazionale, non uno sprovveduto quindi e ora in fase di start up con il suo nuovo birrificio. Sia chiaro, è la strada giusta, molto meglio che vedere un improvvisato agricoltore-birraio armeggiare con lieviti e fermentatori. Ma meglio ancora sarebbe, in questo caso, parlare di birrificazione agricola, più che di birrificio. Non è un sofisma il possedere o meno l'impianto proprio. È un po' come se i dieci proprietari di uno stesso stesso vigneto vinificassero separatamente e affinassero le proprie uve presso la stessa cantina sociale per poi etichettare ognuno le proprie bottiglie. Non è proprio la stessa cosa insomma. Un birraio, ancor più che un vignaiuolo, si identifica anche con il proprio birrificio, con la conoscenza, la manualità e la ripetitività nell'utilizzo del proprio impianto. Altra cosa è mettersi nelle mani di un terzo, pur sotto le proprie direttive. Lecito eh! Ma è bene saperlo. Di questa "delega" di produzione, opportunamente riportata sulla brochure, non v'è traccia sull'etichetta spartana ma efficace delle bottiglie. La legge sorvola su questi dettagli, ahimè. Etichetta peraltro piuttosto parca di informazioni utili al consumatore, a parte gli obbligatori grado alcolico e ingredienti. Ne ho vivisezionate un paio. La prima, La Barbisa, è una strong ale belga in verità non così forte, siamo sui 7%. Colore ambrato tendente al mogano, schiuma non delle più fini, è una birra ben fatta e molto gradevole. Sacrifica un po' di alcool e di corpo per aumentare la scorrevolezza, pur restando su note morbide e con beverinità discreta. Banana, miele di castagno, ciliegia, uvetta, biscotto, scaldandosi cioccolato fondente, insomma tutto l'armamentario che ci si aspetterebbe da una solida belga ambrata. La nota di spezie è evidente e riemerge con vigore per vie retronasali pur senza annientare. Ben fatta. La Furmenta è invece una Weisse, stile poco amato dal sottoscritto e piuttosto ostico da realizzare oltre i teutonici confini, chissà-perché. Purtroppo non ci siamo. Per nulla sgradevole, ma pare fatta col freno a mano tirato. Poco di tutto, per non sbagliare. Corta di banana, di fenolico, di chiodo di garofano, di corpo e struttura, troppo watery, ne esce piuttosto scialba e anonima. Nota a posteriori. Incorporo una rettifica da parte di Nicola Zanella. Il birrificio in questione è proprietario di impianto, ergo è un birrificio agricolo a tutto tondo. Quindi la trafila, se finalmente ho ben capito, è/era: materie prime e impianto agricolo, ricetta di un amico homebrewer, supervisione e birrificazione di un birraio. Consiglierei un po' più di chiarezza sulla brochure...

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