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Nasce dalle albicocche, ma durante la lavorazione prende l’aspetto delle prugne: un po’ di chiarezza su un curioso condimento giapponese, usato pure dai samurai. E oggi per insaporire il ramen.
È un condimento, però è anche un frutto. È solitamente salato, ma si trova anche dolce. È a base di prugne, che però nascono come albicocche. Dell’umeboshi, piatto tipico della cucina giapponese, si sa tutto e il contrario di tutto, e in generale si sa molto poco: quel che è certo è che è un cibo salutare, ricco di proprietà nutritive, usato anche per insaporire il ramen.
Di seguito rispondiamo alle 5 domande più diffuse sull’umeboshi, per aiutarvi a conoscere meglio questo curioso preparato orientale.
In giapponese, il termine umeboshi significa letteralmente “prugne essiccate”, anche se la parola “ume” si riferisce in senso più ampio al pruno, la famiglia di piante che dà sia le prugne sia le albicocche. In natura, i frutti che vanno a comporre l’umeboshi (che è un condimento) sono in effetti più simili alle albicocche, nella forma e pure nel colore: partono dai toni dell’arancione e diventano poi rossicci durante la lavorazione.
Secondo il volume “The Japanese Kitchen: 250 Recipes in a Traditional Spirit” (che ne parla a pagina 142), l’umeboshi si prepara così: i frutti maturi vengono lavati, tenuti in infusione nell'acqua fredda, scolati e asciugati; successivamente vengono messi in un recipiente e vaporizzati con acquavite, poi viene aggiunto il sale (circa 200 grammi per kg di frutta), che viene mescolato perché penetri bene nei frutti.
A questo punto possono accadere due cose: l’umeboshi viene consumato subito (e avrà un colore bruno-arancio) oppure viene colorato. Che è quello che succede più spesso: si usano le foglie rosse di shiso, una pianta molto diffusa in Oriente, lavate, mescolate ad altro sale e posizionate fra i vari strati delle prugne per farle fermentare. Il procedimento dura 4-5 settimane, e al termine i frutti vengono lasciati seccare.
Come si capisce, l’umeboshi è salato e anche parecchio acido, ma ne esistono versioni dolci preparate con il miele e con meno sale (il 3-15%, contro l’abituale 20%). Nella variante più comune, viene usato generalmente per accompagnare il riso, ma anche per aggiungere sapore a vari piatti, come il ramen ricordato all’inizio. Non solo: si trova spesso dentro agli onigiri, i bocconcini di riso avvolti nell’alga nori, e può anche essere usato in alcune varianti di sushi, come il makizushi.
Al giorno d’oggi, l’umeboshi si trova anche in snack confezionati (un po’ come noi abbiamo le bustine di albicocche secche), non solo in Giappone, ma pure negli Stati Uniti e in Australia. Nel suo Paese d’origine, mangiare un umeboshi al giorno farebbe quello che in Occidente si dice facciano le mele: leva il medico di torno. Saggezza popolare a parte, questo particolare condimento è noto soprattutto come rimedio contro i postumi della sbornia, ma anche come digestivo, per prevenire la nausea, come antibatterico e per contrastare l’invecchiamento.
Conosciuto da millenni e ricavato storicamente dalle piante intorno alla cittadina di Minabe, nella prefettura di Wakayama, si dice che l’umeboshi facesse parte dell’alimentazione dei samurai, che li usavano in battaglia per contrastare fatica e stanchezza (grazie al ricco contenuto di sale e acido citrico) e durante i viaggi anche per purificare l’acqua prima di berla.
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