Cose che non vi serviranno per scegliere una buona birra
Se ne leggono di belle in fatto di birra sul web e sugli scaffali e per i meno scafati può diventare difficile scegliere la propria birra distinguendo fra le informazioni che contano davvero e il marketing e la fuffa. D’altronde ognuno fa il proprio mestiere: c’è chi fa marketing e deve vendere, noi invece dobbiamo solo trovare con cosa riempire il bicchiere, e non vogliamo prendere cantonate. La cosa può farsi complicata, ma vi aiuto io.
Belle etichette. Esiste correlazione fra una bella etichetta e buona birra all’interno? Ragionevolmente sì. Ma quanto è forte questa correlazione? Non molto probabilmente. Certo l’occhio vuole la sua parte e sicuramente chi si presenta con una buona immagine trasmette quella professionalità e cura del dettaglio che sono essenziali per la riuscita del prodotto mentre chi nel 2015 ancora se ne esce con una immagine improvvisata e improponibile comunica una sciatteria che non lascia presagire nulla di buono, ma tolti gli estremi, soprattutto quelli di trascuratezza, l’immagine conta fino a un certo punto. Non siamo collezionisti di etichette o esperti di design, siamo bevitori di birra, spesso etichette poco sfolgoranti nascondono birre eccellenti mentre grafiche clamorose non aiutano ad elevare birre mediocri. Meglio farsi guidare soprattutto dal palato piuttosto che affidarsi solo agli occhi nelle vostre scelte.
Belle bottiglie. È il corollario del punto precedente. Con la differenza che mentre un grafica fatta bene è un costo fisso che si ammortizza e può comunque esprimere una necessaria identità e creatività aziendale, una bottiglia chiccosa di vetro è un costo variabile che inciderà – non poco – ogni volta che ne stappate una per finire poi inesorabilmente nella raccolta differenziata a far compagnia alle bottiglie standard.
Collaboration Beers. L’idea era nata con intenti nobili: mettere insieme due – o più oramai – teste birrarie per fondere l’amicizia, il carattere e la ricerca di birrifici differenti. Oggi, diciamolo chiaramente, questa intenzione è andata completamente dispersa: non aspettatevi da una Collaboration Beer cervelli fumanti che dopo una tempesta di idee arrivano alla sintesi di ricette sublimi. Spesso nascono dall’occasione o da esigenze commerciali, capita che un birraio sia in tournee in un paese straniero o che un birrificio si accordi con un altro in cerca di visibilità per penetrare nuove nicchie di mercato o per coltivare la propria immagine. Un paio di email, una chiacchierata la mattina prima della cotta e via. Magari se ne occupa l’head brewer del birrificio in cui viene birrificata – come tutte le altre cotte del resto – mentre i birrai se ne vanno al ristorante a stappare bottiglie. La birra che ne uscirà, come ogni altra birra, potrà essere magnifica o velleitaria – spesso le Collaboration nell’ansia di fare qualcosa di diverso sono birre un po’ improbabili. Ma non fatevi incantare dalla fusione a freddo di neuroni birrari di ordine superiore: anche se i birrifici coinvolti dovessero essere prestigiosi sono birre che ai blocchi di partenza partono come tutte le altre, se non più indietro. Le eccezioni? Ci sono progetti genuini, ma non è colpa mia se sono stati sommersi dalla maggioranza di semplici operazioni commerciali.
Numero di luppoli. Non mi direte che c’è qualcuno di voi che ha abboccato all’asta di luppoli e ingredienti in generale che si legge in giro? Ci sono birre straordinarie fatte con solo un malto e un luppolo, birre straordinarie realizzate con tanti malti e luppoli, tanto quanto pastrocchi e fetecchie nate con un numero di ingredienti compreso fra uno e più infinito. La relazione fra numero e qualità semplicemente non esiste, posto che alcuni stili richiedono un certo numero di ingredienti. Per caso valutate la cucina di uno chef dal numero di ingredienti che usa per realizzare un piatto? In un caso specifico è poi piuttosto nebulosa l’utilità di usare un numero di luppoli che tende alla doppia cifra, oltretutto spesso in birre a predominanza dolce…
Ingredienti “morali” particolari. No, non sto parlando dei tartufi, le puntarelle, il bacon e altre amenità che è capitato di vedere nel corso degli anni. È il bicchiere, giudice unico, a parlare, e se la birra al carciofo acerbo fosse buona, sarebbe buona punto e basta. Quello che intendo è la passione, il sudore, l’amore, la ricerca, ecc. Non ho mai conosciuto in vita mia un birraio fare il suo lavoro senza passione – vabbè, qualcuno forse ci sarà pure, ma è un lavoro in cui per ottenere risultati ci vuole testa e cuore. Eppure questa passione non sempre si trasforma in un grande prodotto, con annesso pericolo di incriticabilità stile “i figli so piezz e core”. D’altro canto non hanno ancora inventato uno strumento per misurare la passione e stilare una classifica. Meglio continuare ad affidarsi al responso del bicchiere.
Ratings. È un po’ come le etichette. O come per Tripadvisor. Valgono qualcosa punteggi alti sui siti specializzati? Probabilmente sì. Sono oro colato? Ma manco per sogno. Spesso la media dei raters ne capisce meno di voi, in genere sono dei drogati di luppolo o di muscolarità e alcool, a volte ci beccano, altre volte clamorosamente no. Oltretutto la birra artigianale è prodotto fragile, che va colto quasi sempre nella sua freschezza, e non sapete in che condizioni è stata recensita. Se proprio dovete sbagliare, sbagliate da soli. C’è più gusto.
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