Attualità

Esprit de Finesse, esprit de Bourgogne

pubblicata il 28.04.2011

Se fosse un chitarrista elettrico, non aver mai suonato Foxy Lady. Se fosse un ciclista, non aver mai scalato il Pordoi. Se fosse un fotografo, non aver mai usato l'Hasselblad 6x6 con la Kodak Tri-X. Se fosse un cinefilo, non aver mai visto un film di Orson Welles. Se fosse un viaggiatore, non aver mai preso un pullman in America Latina. Se fosse una pizza, non aver mai mangiato quella di Napoli. Se fosse un calciatore, non aver mai visto giocare Maradona. Se fosse una maratona, non aver fatto quella di New York. Pensavo a queste cose, mentre con le dita ancora aggrappate all'ultimo istante di luce gialla del tramonto giravo le palline nel mio personale pallottoliere vinicolo, dopo aver visto la Borgogna. Citando la canzone, Con quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così che abbiamo noi cha abbiamo visto la Cote d'Or. C'è qualcosa dalle parti di Beaune, che se non ci vai non lo capisci: un gioco d'estremi che continuamente si toccano, confondendosi. La ricerca estrema della sfumatura fino all'ossessione della parcella, conteggiata, disegnata, accatastata e battezzata, e l'omogeneità estrema delle coltivazioni: sempre uguali, quasi un mare. L'estremo rigore nella gestione - anche commerciale - del patrimonio vinicolo, e l'assoluto disinteresse per certi aspetti della forma, il resto degli assaggi rovesciati per terra, i campioni di botte rimessi in botte, il curatissimo disordine delle cantine. Per chi ci va la prima volta, ci sono due rischi che vanno tenuti presenti avanti tutto. Il primo, è quello di tornare a casa riempiendosi la bocca di verità così banali da risultare cotonose solo a pensarle. Tipo Guardalorocomesonobravi. La seconda è di innamorarsi perdutamente di quella luce gialla, di quelle colline dalla curva dolce come il fianco di una donna. Ce n'è una terza, ed è il rischio di rovinarsi finanziariamente: i vini di Borgogna sono orrendamente costosi, e proibiti ai più di noi. I Grand Crus dell'annata corrente volano facilmente in tripla cifra, e basta andare indietro di qualche millesimo che l'importo diventa un tentato omicidio. Allora, come riportare l'immagine di quelle file di viti grosse come avambracci grossi, ma alte come una salsiccia? Avambracci neri nodosi che si protendono fuori dal terreno, magari terminando con un pugno mezzo chiuso da cui spuntano due o tre germogli. Foglioline tenere, verdoline, ancora piccole. Eppure sono tutti lì a schiena piegata, i vignerons, a darci di cesello, a chiamare per nome ogni pianta, oltre che ogni metro quadro. Stupefacente considerazione: nei secoli, mai nemmeno un tentativo per rendere più comoda la coltivazione. Giù, a schiena piegata. Lasciando alle spalle una delle mille stradine che corrono tra le vigne pensavo quale immagine usare, delle molte archiviate nella memoria digitale. Poi sono passato accanto ad un cavallo: un cavallone da tiro, in mezzo ai filari. L'attacco era un aratro medievale, con il chiodo, su cui stava in piedi l'agricoltore: con i legacci passati dietro le spalle, come mille anni fa. L'estremo snobismo, lo sprezzo per la fatica. Allora anche io ho sentito il bisogno di qualcosa di analogico. Ho chiesto a Filippo di disegnarmi il cavallo e il contadino. Non sono proprio uguali, ma quasi. Poi c'è la questione della luce gialla, ma il digitale ci salverà.

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