“Gli Italiani e il cibo. Di meno, di più, meglio?” è il titolo del seminario, tenutosi nei giorni scorsi, organizzato da GFK Eurisko.In questi tempi bui non ci resta che mangiare o, perlomeno, parlare di cibo.Pare che nelle nostre pratiche alimentari siamo diventati tutti più esperti, attenti, curiosi e rispettosi dell’ambiente.Ciclicamente veniamo sconvolti da qualche scandalo alimentare: finché l’insano si presume, ma non se ne ha la certezza, si tira avanti e si consuma; però, di fronte alla mozzarella blu, la condanna è generale e diventa necessario sapersi difendere dalla perfidia delle multinazionali, dai sotterfugi delle aziende medio-piccole, dall’insalata dell’ortolano ravvivata a forza di secchiate d’acqua.E poi c’è il lato edonistico della cucina, quello rappresentato dagli chef più o meno famosi , premiati e affascinanti; dalle nuove casalinghe televisive, nipoti glam di Wilma De Angelis; dalla scelta del “ristorante giusto” che è diventata fondamentale per capire chi è realmente à la page.Secondo i dati GFK Eurisko, nel 1995 12 milioni di persone dichiaravano di trascurare la propria alimentazione, ora solo 7 milioni. Vero è che sarebbe un po' difficile sostenere di essere dei gourmand se poi, la sera, ci si scalda una pizza surgelata. Pertanto, va riducendosi il consumo degli insidiosi fuoripasto ma anche il pranzo, da completo, sta diventando sempre più piatto unico (e non credo solo per ragioni di leggerezza ma anche perché, con i ticket da € 5,20, nemmeno il più economico cino-sushi-pizza-kebap sarebbe in grado di offrire dall’antipasto al dolce).L’attenzione alla “sostenibilità” di un prodotto alimentare rivela un comportamento auto-conservativo, prevalentemente legato al rispetto dell’ambiente come certezza della propria salute; non tanto, quindi, alla tutela delle risorse naturali in assoluto e dei principi etici all’interno della filiera produttiva (sebbene, anche questi aspetti vengano tenuti in considerazione, ma da una fascia di popolazione con elevati livelli d’istruzione).Il consumo consapevole ha, in Italia, un’importanza nettamente superiore rispetto alla media degli altri paesi EU5 (Francia, Germania, Spagna e Regno Unito): 42% contro 18%. Forse siamo solo più ipocondriaci.La ricerca sottolinea come, prima che buono da mangiare, il cibo deve essere buono da pensare.Questo in relazione non solo all’aspetto edonistico di cui si accennava, ma, soprattutto, all’allargamento del concetto di food, che trascende i tradizionali confini spazio-temporali: non ci si limita più al solo acquisto-consumo ma ci si informa, si condivide, si attribuisce importanza al contesto e alla presentazione, si sperimentano pietanze e modalità di consumo tipiche di altre culture. Pensiamo al seitan, alimento di origine cinese, che sulla scia del vegetarianismo viene oggi considerato più sano e non meno saporito della carne, anche da molti onnivori.In Italia l’esperienza di consumo è ritenuta più importante del possesso per il 49% degli intervistati, contro il 43% medio degli altri paesi EU5.Il regno dell’esperienza è rappresentato dagli Stati Uniti: il 52% degli intervistati la ritengono prevalente sul possesso.Innovazione e intrattenimento sono elementi fondamentali per conquistare un consumatore.Si è citato il caso di Hellmann’s, una maionese del gruppo Unilever che in Brasile è stata protagonista di un’iniziativa di successo, registrando un incremento del 40% nelle vendite. Attraverso l’utilizzo di un software in grado di riconoscere i prodotti posti nel carrello della spesa, veniva suggerita al consumatore una ricetta a base di questi ultimi, accompagnati dalla salsa in questione.In Italia, inoltre, il cibo è ritenuto un asset fondamentale dell’economia, perché, al pari di arte e ambiente, rappresenta l’eccellenza italiana all’estero. Come scriveva in un saggio Giuseppe Prezzolini “che cos’è la gloria di Dante, appresso a quella degli spaghetti?”Ma cosa sta succedendo, nella pratica, ai comportamenti d’acquisto degli italiani?Pare che ci siamo stufati dei centri commerciali e che prediligiamo le medie superfici di prossimità, tanto che tutte le insegne si sono prodigate nel diffondere punti vendita per renderci più facile la spesa senza dover, necessariamente, prendere l’auto.Il motivo, oltre al costo della benzina, è che a causa della minor disponibilità economica la spesa di stock (la tradizionale “spesona” del sabato pomeriggio) ha perso in termini di convenienza: i consumatori italiani prediligono il risparmio immediato, quello dato dagli sconti a breve e non dall’accumulo di prodotti. A conferma, la leva promozionale utilizzata dalle aziende continua a crescere (+ 27% rispetto al 2011).Ma c’è anche una ragione sociale: le medie superfici si pongono come punto di riferimento, come “nuovi bottegai”, dove il consumatore trova ampio assortimento in un contesto meno estraniante rispetto a quello dei centri commerciali.Quest’anno, per la prima volta nell’ultimo decennio , i volumi di spesa si sono contratti: in particolare le cosiddette code, cioè quei prodotti che venivano acquistati occasionalmente per essere provati (in soldoni, ciò che è fuori dalla lista della spesa non viene più preso in considerazione). Le prime dieci aziende del comparto pagano il trend negativo dei consumi perché la fedeltà alla marca passa in secondo piano e, infatti, avanzano le private label che sono estremamente competitive nel rapporto qualità-prezzo. Anche perché, ritornando agli aspetti etici del consumo, risulta ancora forte la domanda di maggior chiarezza e di maggior informazione rivolta, in particolare, proprio ai leader di mercato.In conclusione, tra chi si trastulla sperando di avere ospite uno chef, chi si autoconvince che il seitan sia saporito quanto il filetto e chi prende una laurea in chimica solo per imparare a leggere le etichette, forse sarebbe sufficiente, per fare una spesa decorosa in tempi di crisi, applicare la giuridica diligenza del buon padre di famiglia.