Che il Merano Wine Festival sia appuntamento per appassionati lo si legge immediatamente, appena entrati. Dopo una fila lunga, magari resa stoica dalla pioggia, si affronta una distesa di tavoli. Non stand ma tavoli, tutti uguali, per la cantina da quantità a molteplici zeri, come per il vignaiolo di rinomata ricerca e per il misterioso guru delle cesoie, che ha investito per esserci e se non qua dove lo ritrovo? L'occasione di degustare quel vino di cui tanto si parla e si scrive, ma costoso, ma raro, ma inaccessibile a me modesto amatore, crea la massa umana che accorre fuori stagione su su per il Trentino. Però, sono tavoli, solo tavoli, e distribuiti con criterio multiforme. Perciò, bisogna conoscere chi si para davanti, studiare, informarsi e andare a caccia di assaggi.
Esaurito il carnet del programma obbligatorio, pianificato nelle settimane precedenti, è facoltà dell'appassionato interessarsi, curiosare, suggere guidato dall'uvaggio, dall'annata, dall'etichetta, dall'abilità del referente di cantina. Effetti speciali coreografici pochi, e massima concentrazione sul prodotto, e dunque pochi passeggiatori distratti e grande copia di cultori. Spesso organizzati in piccoli commando di critica militante, in movimento da un banco all'altro a godere, imparare, discettare, e con il passare del tempo a tendere nuove geometrie enoiche. Di cui l'indomani resterà solo il ricordo lontano.
A dire il vero i veterani del Merano Wine Festival, prima di violare il bicchiere, iniziano la visita con uno studio su chi c'è e chi non c'è più, su chi stava in questa sala e ora sta nell'altra. L'organismo MWF cresce, cambia, si muove di anno in anno. Rubando in conversazioni, ma anche assistendo a autentiche conferenze estemporanee sull'oggi vitivinicolo europeo, il parere sul festival sembra essere uniforme: c'è la qualità. Che sia una magione storica o un rampante delle nuove tendenze, di norma non c'è rischio di delusione. La dimensione aiuta: grande ma non enorme, e dunque ecumenico ma critico, democratico ma non populista. Resiste per qualcuno un fumus di alternatività, di scelta di rottura contro il mainstream, ma se questo poteva essere un tempo, ora non è più.
Chi lo approcciasse per la prima volta, sappia che troverà bicchieri con cauzione dieci euro. Bavaglino reggicalice? Quindici euro. Di biglietto fanno ottantacinque euro a giornata, per avere a disposizione bottiglie che non si vedono tutti i giorni. Ma bisogna volerle quelle bottiglie, cercarle, desiderarle. Insomma, trattasi di festival per winelovers, con passione dedicata. E adusi alle folle, che i piani, i corridoi, gli ammezzati, abbondano di umanità del tipo sgomitante, a tratti aggressivo. Aiuta a calmierare la foga la bellezza del Kurhaus, storico, lindo, elegante e non austero. Del giusto compromesso fra il perdersi fra scale e sale dentro sale, e compattezza di esposizione.
Gli operatori del settore, che in fondo sono là per lavorare, vorrebbero un giorno riservato solo a loro. Opzione non bislacca, ma un poco fuori fuoco rispetto al MWF. Che però potrebbe fare anche questo passo, verificando la tenuta della propria identità.
Costola del vino, il cibo, in Culinaria. Passerella un poco slegata, con apice negli eventi della Gourmet Arena, dove tra i Generali come Alfio Ghezzi e le belle sorprese come William Zonfa dell'Aquila, si parla di cibo fra foodblogger, appassionati e via a scalare fino al curioso e all'affamato. Certo, la strategia del banchetto uguale per tutti, col cibo claudica. Esporre nocciole, prosciutti e panettoni meriterebbe possibilità di custom maggiori. Ma almeno si cerca di fare qualità, e non di dare una mangiatoia agli invasati del vino che sciamano per il Kurhaus. Ci si può lavorare.