Attualità

Il Sabato del Villaggio | Aristocrazia gastronomica e il malcontento del terzo stato

pubblicata il 19.03.2011

Ogni volta che faccio un passo in più - piccolo, troppo piccolo - nella conoscenza dell'enogastronomia francese mi accorgo che sarebbe il caso di mettere al bando le velleità nazionalistiche e imparare da quelli che l'hanno fatto prima. Dico di elevare a sistema una passione in fondo dedicata al puro piacere dei sensi terreni, hic et nunc. E senza alcuna finalità riproduttiva eterodiretta, peraltro, anche se non so se quest'aspetto dev'essere classificato tra le aggravanti o le esimenti. Del resto quando i Francesi rendevano pubblica la prima lista di cru classificati, si erano già lasciati alle spalle la Rivoluzione, e da allora hanno potuto continuare a curare, perfezionare, migliorare le loro faccende enologiche con buona pace di un efficiente apparato statale, unitario e privo di importanti soluzioni di continuità. Noi nel frattempo ci baloccavamo ancora con le Società Segrete, i Carbonari - che non erano dei fissati della preparazione filologica della famosa pasta - e ci facevamo definire "Espressione Geografica" da quel bel tomo di Clemente di Metternich. Probabilmente l'idea di un sistema di classificazione delle denominazioni del vino non rientrava nei primi centomila desiderata dei popoli italiani, anche se probabilmente il consumo di vino pro capite allora assumeva proporzioni che oggi ci parrebbero monumentali. Tutto questo mi riporta alla mente una considerazione trasversale ai settori vinicolo e culinario: l'aristocrazia di entrambe sta altrove. E lo dico con mano tremebonda, con la profonda convinzione che l'atto di mangiare non è limitato al nutrirsi: e non lo è mai stato nemmeno nei periodi più bui, annidati ai bordi dell'inedia. Considero la cucina italiana almeno altrettando degna e valida di quella francese, ma con una sfumatura radicalmente diversa. Se è vero che la grandezza della cucina italiana è la sua varietà, l'incredibile complessità dei territori, degli ingredienti, dei frutti di una natura variopinta ed esuberante; di contaminazioni che la rendono omogenea solo nella grande congerie di variabilità; se è vero che un oceano di diversità attraversa il nostro paese da nord a sud e da est a ovest come una rosa dei venti bislacca e farfallona; se è vero tutto questo, allora possiamo dire di aver assistito ad un rovesciamento dell'aristocrazia gastronomica. Perchè la cucina di territorio non è mai stata un valore da ricercare, anzi è stata la condanna delle genti semplici a mangiare il prodotto della terra che lavoravano, e su questo assunto si sono costruite le tradizioni che ancora oggi sopravvivono. La tavola del principe era invece sofisticata, diremmo oggi globalizzata: imbandita con alimenti esotici, ricercati, spesso lontani dalla quotidianità locale. Dunque il terzo stato della gastronomia - la cucina di territorio - ha compiuto la propria rivoluzione, eccessi inclusi (la grancassa del chilometro zero, ad esempio). La tradizione si è fatta aristocratica, ha acquisito dignità, verità, profondità. Ora manca di trasformare tutto questo in una disciplina organizzata: ma se loro ci hanno messo trecento anni noi possiamo solo sperare di fare meglio. Dipende dal nostro quoziente di ottimismo. Immagine: Bruegel il Vecchio, Banchetto Nuziale (1567). Babilonia 61

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