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Il Sabato del Villaggio | L'accabadora, la scrittura, la cucina, e l'assai praticata arte del <em>mindpipping</em>

pubblicata il 06.08.2011

Il meltemi (μελτέμι) soffia forte, e spazza un'impudica lagrima: gli uomini grandi e grossi non dovrebbero mai versarne: non è previsto dal codice. Eppure le ultime pagine del piccolo libro di Michela Murgia sono andate a scavare dove il sole non riscalda mai, quell'angolo oscuro dove si tengono le cose per sè e che solo raramente un raggio di luce - e di consapevolezza - arrivano ad illuminare. E' una storia sarda, che va letta e non raccontata. Scorre facile e felice - in senso letterario, che invece è amara assai - e arriva alla fine non senza una certa sapienza tattica. Perchè tiene per le ultime pagine, quelle che colpiscono, un colpo di zagaglia che finisce diritto nel costato. E' il momento in cui la storia deraglia, e diventa inaccettabile eppure giusta: valica il senso della morale, il senso del pudore, il buon senso. Dopo l'ultimo punto fermo vorrei ancora avere a che fare con l'Autrice: mi spiace che le pagine siano finite, leggo anche gli "special thanks". E' allora che mi rendo conto che la scrittura si mangia. C'è questo parallelo estremo tra scrivere e cucinare. Si cucina perchè qualcuno mangerà le tue pietanze. Ti dai tutto quel daffare tra le padelle, corri di qua e di là ad acquistare gli ingredienti, metti insieme i sapori, impagini i piatti solo perchè qualcuno poi ne farà scempio, assalendoli di forchettate. E tu vorrai essere là a guardare, per sapere se le tue preparazioni hanno detto qualcosa, o si sono estinte nell'ignavia. Se scrivi è per lo stesso motivo: perchè qualcuno ti legga. E magari prenda via qualcosa dalle tue parole, ne faccia qualche uso: magari disintegri le tue parole con appetito, oppure le ingurgiti senza assaporarle, oppure niente. La scrittura non esiste fino a qualcuno non la legge, e cessa di esistere nel momento stesso in cui viene letta. Riprende vita quando la pagina viene ripresa da qualcun altro, muore e rinasce infinite volte. Come una carbonara, preparata e mangiata ancora, e ancora. Il processo creativo è lo stesso: cercare gli ingredienti - le parole - e assemblarli in una storia. Poi prepararli in una forma acchiappante, che regali qualcosa già al primo acchito. Giocare con l'insolito, l'arduo, e l'inconsueto per tenere sveglio l'ospite - o il lettore - e infine lasciarlo ebbro, appagato e sazio. E' per questo che la prossima volta che incontrate qualcuno che vi dice, appoggiato di schiena in un angolo con gli occhiali scuri e l'epressione da amarezza del vivere, vi dice "beh, io scrivo. scrivo per me". Quando lo incontrate colpitelo con la mano aperta, che non ce facciamo di nulla della scrittura "per me". Che di cucinare per me stesso otterrei solo una recrudescenza della colesterolemia, e di un'altra obesità, questa volta intellettuale, facciamo volontieri a meno.

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