Attualità

Itinerari | Campo de' Fiori

pubblicata il 12.02.2013

Non la millesima nè la centesima volta che calpesto Campo de' Fiori: semplicemente: ogni volta che ho potuto. Semplicemente, più che posso. Attrazione magnetica, e repulsione a volte: quelle sere d'estate che i dorsi sudati sono un grappolo sui gradini di Giordano, e le bottiglie di birra calda economica tappeti rotolanti. Quando i puzzi dei fritti in oli di milionesimo passaggio sono serprenti d'aria avviluppati ai fumi della sera come nei fumetti di Alan Ford, quando non c'è niente di romano - tantomeno di romanesco - da queste parti. Oggi ho detto Facciamo presto alla sveglia nascosta dentro il telefono e mi sono mosso per tempo, l'occhio digitale ferramentoso appeso spalla. No, oggi non mi prendo fretta, che voglio capirne di più. Per esempio. percuotere con i tacchi i sampietrini di Via dei Giubbonari, dimenticarmi di svoltare ai Baullari. Fare la facce davanti a Roscioli, e non stancarmi di alzare gli occhi alle case vicoli e palazzi, e archi dilavati e muschiosi, e angoli umbratili, e gli orrori della modernità, e gli orrori di quelle piccole tessere d'ottone conficcate per terra con nomi di uomini cancellati, e i negozi cinesi e gli ambulanti di mille bandiere. Poi lo slargo della piazza è come un gesto di rassegnazione: Mi tocca di respirare, pare dire la città che forse ne vorrebbe di meno. E i banchetti e il mercato, che sono appena qualcosa di meno di uno strappo nel continuum dello spazio tempo. Qui i banchi di verdura romanesca, in cui verdurai ammorbiditi dagli anni perdono le ore a preparare i carciofi per la giudìa. Le erbe, gli ortaggi meno consueti. La gran lavorazione per rendere presentabili le puntarelle. Le mucchie di frutta. E qualche metro più in là i forestieri con le immense panoplie di pasta confezionata apposta per sembrare italiana: fascette tricolori, pasta tricolore, marchi tricolori, innumeri e inutili. Fa ridere: il pittoresco appaltato agli stranieri, quando il tipico perde la sua essenza. Si squaglia, si scioglie nell'empito produttivo. Prova, prova tu ad essere industriale con le puntarelle. E i liquorini, e le essenze. E poi i piccoli tramestii, trepestii di chiacchiere come da nessuna parte al mondo. Come lì all'angolo, un dialogo irreale tra il tizio che ha comprato uno smartphone che non funziona: incontra l'amico dell'amico che subito lo inforca scherzandolo, Ma de che, ce stanno certi cinesi che co' du euri te rifanno er telefono. Mo' je chiamo io. Fa il numero, e dice Ahò, com'è, so ìo, sénti, ce sta n'amico mio, n'amico amico, che cià un probblema. [pausa, ascolta] Nooo, n'amico, te dico, se chiama... scostando il telefono... Ahò come te chiami, Armando? Ecco Armando qui che c'ha 'n probblema. I musici appizzano gli strumenti, con i piccoli amplificatori portatili. I camerieri riemergono dalle trattorie, a caccia del prossimo avventore, menù sottobraccio, parlantina sciolta, birignao burroso e tovaglia a quadri. E - naturalmente - i fiori. Mi infilo di giù verso piazza Navona. Ancora uno sguardo, ancora un pajo di scatti. Una volta mi fermerò a pranzo. Per ora, per ora no. Nemmeno la birretta da Nefertiti*. *Un racconto scritto su Campo de' fiori, una vita fa. Ma non è il caso, oggi.

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