Cos’è la ‘marenda sinòira’ piemontese e perché non c'entra con l'apericena
Ci siamo fatti aiutare da uno studioso di dialetto piemontese e dallo chef di Guidoristorante per comprendere il significato della marenda sinòira. Un'antica pratica che è parte della nostra storia gastronomica e per questo va raccontata.
È un’espressione che oggi si sente di rado, la si usa, sporadicamente, a indicare un evento contemporaneo dal nome ‘esotico’. La marenda sinòira (la troviamo sempre citata come merenda ma la versione originale vuole la a, in coerenza con la forma dialettale piemontese) era una pratica tipicamente piemontese, un pasto freddo, pomeridiano, consumato intorno alle 17; una merenda robusta, forse più per la natura degli ingredienti che per la quantità, che difficilmente lasciava spazio alla cena. Siamo a metà 800, dapprincipio la marenda sinòira contadina non ha certo intenti conviviali, risponde piuttosto al bisogno di chi lavora la terra, di ristorarsi e rifocillarsi, nel tardo pomeriggio, dopo una giornata di lavoro nei campi, spesso non ancora terminata.
Per capire meglio una parola e una pratica che ci ha incuriositi abbiamo chiesto aiuto a uno studioso di dialettologia piemontese e a uno chef.
Il primo, il Professor Nicola Duberti, ci spiega che “marenda sinòira è un termine composto di un nome (marenda) e di un aggettivo (sinòira), entrambi risalgono a etimi latini”. Tenetevi forte che qui si fa sul serio: “marenda è l’esito piemontese del gerundivo del verbo MĔREO, ossia MĔRENDA che sta per ‘cose che devono essere meritate’; sinòira invece è l’esito piemontese dell’aggettivo latino femminile CĒNĀTŎRIA ‘da pranzo/da cena’ - secondo il Repertorio Etimologico Piemontese - sopravvissuto solo in piemontese”. Ecco che il significato è più chiaro, “praticamente la marenda sinòira - continua Duberti – è una merenda così abbondante e consistente da sostituire la cena”. Conferma poi la nostra ipotesi: “in realtà credo che in origine fosse un pasto abbastanza frugale offerto ai lavoranti agricoli al termine della loro lunga e faticosa giornata, come la marenna diffusa in Campania”. Lo troviamo spesso definito abbondante perché “i datori di lavoro più generosi, evidentemente fornivano qualcosa in più, che poteva sostituire la cena. Quando però i ‘padroni’ non erano generosi, erano gli stessi lavoratori a organizzarsi per condividere qualcosa e trasformare il ritorno dai campi in un momento di convivialità”.
Insomma, grazie allo spirito di condivisione proprio della società contadina, per come ci è stato raccontato, questa pratica diventa partecipativa, un modo per spartire quanto si ha. La marenda sinòira approda in contesti cittadini e agiati, viene dunque declinata come modello di convivialità quasi mondano solo in tempi più recenti.
Il Prof. Duberti ci fornisce lo spunto per dare uno sguardo oltre il tardo pomeriggio “visto che una marenda sinòira consistente sostituisce la sin-a –, la cena in piemontese – non è raro che alcune famiglie contadine un po’ più fornite si ritrovassero a notte inoltrata per fare arsinon, letteralmente ‘ri-cenone’, cioè per mangiare qualcos’altro senza aspettare l’alba e la colazione”.
Se l’origine dell’espressione ci aiuta a capirne storia ed evoluzione, le competenze di Ugo Alciati, chef di Guidoristorante, ad Alba, e Ambasciatore del Gusto, ci introducono all’esperienza. Gli abbiamo chiesto se in famiglia, una famiglia di ristoratori con un forte legame con la terra, ne aveva mai sentito parlare e lui ci ha aperto una prospettiva nuova sui valori che il termine esprime, non solo nutrizionali.
“Non solo ne ho sentito parlare, di più, ho partecipato a molte marende. Vivendo in campagna capitava di dare una mano a vicini o genitori di compagni di scuola, per la vendemmia, per battere il grano oppure per raccogliere la frutta. Per noi era un gioco, un divertimento, alla fine del lavoro ci si ritrovava all’ombra di una pergola e si consumava la marenda”. Chi si aspetta il menu della marenda resterà deluso “Ognuno nella marenda sinòira metteva quello che aveva. Chi allevava maiali e galline faceva una frittata con il salame”, diciamo che gli abbinamenti a quei tempi erano condizionati alla disponibilità della famiglia più che ai trend.
La cucina piemontese nasce così, povera, contadina e di recupero e Chef Alciati a tal proposito ricorda una ‘ricetta’ di quando era ragazzo tipica di questi appuntamenti. “Noi mangiavamo sovente sòma d'aj ovvero la crosta di biova sfregata con l’aglio, la crosta perché essendo ruvida l’aglio lo sgretolava, un filo di olio e un pizzico di sale, dei fichi o dell’uva per accompagnare”. I fichi e l’uva, abbinamento da bruschetta gourmet ante litteram, in verità “si mangiava così perché da una parte c’era una pianta di fichi e sotto il pergolato l’uva.
Ecco che, nell’esperienza più recente di Alciati, la marenda sinòira acquisisce un significato nuovo, autentico e profondo: la gratitudine. Mi hai aiutato e in cambio della fatica ti sfamo. Come i ‘padroni’ ma con l’affetto degli amici. “Non si passava la giornata ai fornelli per organizzare la marenda, sia chiaro. Si trattava di uno scambio di manodopera gratuita fa amici e vicini di casa, gli uni cedevano il proprio tempo lavorando, magari sotto il sole tutto il giorno, e di contro c’era un’affettuosa ricompensa”.
La riproposizione di questi riti serve a custodire la memoria collettiva, ma, secondo Alciati questo valore gastronomico culturale va riproposto a chi non l’ha mai provato, senza reinterpretarlo e decontestualizzarlo. “Andrebbe divulgata in modo il più possibile autentico, facendo muovere le persone verso le campagne per far vivere l’esperienza, perché sederti su una panca scomoda, sfregare l’aglio sulla crosta del pane appena sfornato e poi alzare un braccio per cogliere un fico, tutto questo è l’esperienza”. E questa affermazione molto poetica ci fa comprendere quanto, soprattutto nelle grandi città, tendiamo a risignificare le esperienze riconducendole ai nostri modelli, la marenda sinòira non è un’apericena. “Ma occorre distinguere tra operazioni commerciali e culturali” ci ricorda lo chef “che hanno strategie e obiettivi diversi”.
Abbiamo ormai compreso che la cultura gastronomica di un territorio contribuisce alla costruzione dell’identità sociale di chi ci vive, e allora, come questa merenda esprima la piemontesità, lo abbiamo chiesto a Chef Alciati “forse la merenda svela la vera natura del piemontese, che è grato e altruista, ma in modo schivo, e il più delle volte mostra solo i suoi lati più austeri”.
Ecco cos’era la marenda sinòira: un modo di consumare il cibo insieme, come conforto alla fatica. Senza smartphone e filtri, non è nostalgia, è consapevolezza.
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