Il tartufo, definizione di una leggenda
Uno dei fenomeni più affascinanti in natura è senza dubbio la simbiosi: individui di specie diverse, perfino di regni diversi, che si alleano per raggiungere uno scopo comune. Un meccanismo che genera anche prodotti che vanno a finire sulla nostra tavola, come ad esempio il tartufo.
Il tartufo non è, come erroneamente molti pensano, un tubero. Nonostante il nome scientifico del genere - Tuber - si tratta infatti a tutti gli effetti di un fungo che si sviluppa sotto terra, detto perciò ipogeo. Un fungo particolare, però, che instaura con alcuni tipi di piante arboree e arbustive un rapporto molto stretto di cooperazione, chiamato simbiosi micorrizica (dal greco, simbiosi tra fungo e pianta superiore). In pratica le ife dei funghi e gli apici radicali delle piante stabiliscono una relazione che le mette in collegamento e le fa lavorare assieme.
In questo modo sia il fungo che la pianta traggono dei benefici: il fungo riceve dalla pianta sostanze complesse che ne permettono la sopravvivenza, mentre la pianta usufruisce di un apparato radicale supplementare formato dalle ife. Si tratta di filamenti sottilissimi in grado di esplorare vaste zone di terreno e di assorbire acqua e sali minerali utili al metabolismo della pianta. Oltre a questo le micorrize formano un ostacolo all’ingresso di patogeni nella pianta, proteggendola.
Per riprodursi il tartufo sviluppa un corpo fruttifero, all’interno del quale si sviluppano le spore, in grado di dare origine ad altri individui della stessa specie. È ovvio che i funghi ipogei come i tartufi hanno maggiori difficoltà riproduttive rispetto a quelli epigei. Non possono infatti contare sull’azione del vento per la diffusione delle spore, ma solo su quella degli animali o dell’uomo.
Il corpo fruttifero del tartufo è fondamentale per distinguere ad occhio nudo l’appartenenza a una specie rispetto ad un’altra. È formato da una parte esterna, detta peridio, e una polpa interna che va sotto il nome di gleba. La gleba a sua volta è formata da ife sterili, normalmente di colore bianco, e ife fertili, di colore più scuro. L’alternanza di questi due tipi di ife dona alla polpa interna un aspetto marmoreo, più evidente nelle specie dotate di scorza nera. Le ife fertili, dette anche imenio, sono dotate di piccolissime strutture globulari dette aschi, che contengono le spore.
I tartufi sono presenti in aree abbastanza limitate del mondo. Non tutti i tartufi sono commestibili: quelli più pregiati vengono quasi tutti dal continente europeo. Il loro pregio deriva dalle caratteristiche organolettiche ma anche dalla loro rarità. I tartufi più pregiati sono infatti quelli più difficili da trovare, complice la loro scarsa adattabilità alle condizioni pedoclimatiche: temperatura media, tipo di suolo, quantità e distribuzione delle piogge.
La raccolta dei tartufi è regolamentata in tutta Italia, oltre che da una legge nazionale, anche da leggi regionali, che stabiliscono epoca e metodo di raccolta. La si compie sempre in compagnia di un cane. La raccolta con i maiali, animale molto sensibile al profumo dei tartufi, è vietata per legge, come conseguenza dei danni che questi animali sono in grado di causare nel bosco. Il cane è opportunamente addestrato a svolgere questo importante compito, e viene tenuto in costante allenamento dal parte dei cercatori di tartufi. L’allenamento parte da quando i cani sono cuccioli e sono necessari due o tre anni prima che l’animale operi in bosco nel migliore dei modi. Pur non esistendo una razza specifica per la raccolta dei tartufi, è necessario che il cane sia di dimensioni contenute e che abbia un mantello forte, che gli permetta di muoversi con facilità nel bosco. Si usano spesso bastardini, oppure il Lagotto romagnolo, specie dotata di grande olfatto e che tradizionalmente viene allevata proprio allo scopo di ottenere cani da tartufi. Vanno molto bene anche gli incroci bracco-pointer, cocker-pointer e bracco-spinone.
La raccolta va eseguita con l’ausilio di una piccola vanghetta, limitandosi a scavare nella zona indicata dal cane.
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