Attualità

Ricci | Il dio della birra

pubblicata il 08.06.2011

La domanda che ti fanno più spesso è “qual è la birra più buona del mondo?” ed è, come facilmente immaginabile, la domanda più sciocca che possano farti, per quanto lecita. Ma se qualcuno, con più audacia, mi chiedesse di quale religione birraria sono, qual è il dio pagano che venero, non avrei dubbi in proposito. Si chiama Kris Herteleer e abita a Esen, nelle Fiandre Occidentali. Se qualche frammento di passato si incaglia nei ricordi, una ragione ci sarà. Ed io ricordo con chiarezza quando più di un decennio fa, alla fine della prima degustazione guidata, carbonara e lomellina, il vate Kuaska mi annunciò per la settimana seguente una imperdibile degustazione di birre di Natale con “la birra più buona del mondo”. Dichiarazione confutabile? Le divinità non si discutono, si venerano. Come ogni divinità che si rispetti, è un dio capriccioso. Di quella serata natalizia e lontana ricordo che per contenere la schiuma la birra venne servita in due bicchieri… È un dio burbero, ruvido, di più, fiammingo, e pure troppo… Ma è anche un dio severo e giusto. Se vai a trovarlo ti studia a lungo col suo sguardo sornione prima di accedere alla sua cantina per emergerne con qualche bottiglia fuori dal tempo. È un dio geniale per il quale fare l’architetto, il pittore o il birraio è l’identica prosecuzione di una visione personale e profondamente autentica. E’ anche, come ogni buon commerciante fiammingo, un dio che non la fa mica per sport la birra neh… Il suo tempio si chiama De Dolle Brouwers, letteralmente i birrai pazzi, e nasce nel 1980 sulle ceneri del birrificio Costenoble. La sua furia creatrice si ritrova nelle sue birre, talvolta incostanti, ma dal carattere così complesso e nitido dal farti riconoscere una mano che ha una marcia in più. Resta nel cuore degli appassionati più datati la sua vecchia Oerbier, una red flamish che dopo lo stop della fornitura di lieviti da parte di Rodenbach ha perso il taglio acido/acetico senza tornare mai più la stessa. Ma dio Kris ha dettato anche l'avanguardia nell’amaro belga degli ultimi 20 anni con la Arabier, quando una birra di tale luppolatura pareva un azzardo. Pensando alle odierne buffonate stile 1000 IBU viene da sorridere. Ancora oggi innovatore e riscopritore di antiche tradizioni, con le birre presentate allo Zythos Beer Festival, acide, senza luppolo, con lieviti inusuali, passaggi in botte, sperimentazioni dotte se volete, ma mai accademiche e sempre ed irrimediabilmente da bere a secchiate. Lontano anni luce dal marketting modernista e da chi, anche nella birra di qualità, cerca di abbindolarci col fatto che la comunicazione, la provocazione ed il superfluo che ci gira attorno sia più importante del contenuto della bottiglia. Alle sue bottiglie basta un farfallino sul collo della bottiglia per essere notate. Una volta, provocatoriamente, gli ho chiesto se non avesse intenzione di fare qualche birra collaborativa con qualche birrificio. Dei ragazzi di un birrificio americano sono venuti a chiedermelo ma gli ho detto di no, mi ha risposto. Poi mi ha guardato, fiammingo e sornione, chiedendomi: “Quanti pittori ci vogliono per dipingere un quadro? Perché mai dovrei fare birra insieme a qualcun altro?”. La Stille Nacht è una delle sue birre–mito, interpretazione di birra di Natale lontana dall’ideale di birra scura e tostata, qui piuttosto sull’ambrato carico con riflessi aranciati. Non è uno stile ed il campo è aperto, posto che ci si attende una birra alcolica, complessa, di buon corpo e con tendenza alla dolcezza. E questa di dolcezza ne ha da vendere. Partendo da un mosto bollito a lungo per raggiungere una densità imponente, nel bicchiere è viscosa, quasi masticabile, eppure in bocca non perde la beverinità tipica del Belgio – nei limiti del possibile… Lo stucchevole è scongiurato da un’acidità marcata e rinfrescante, non data da fermentazioni particolari, piuttosto da un probabile ingrediente “segreto”, e l’equilibrio finale è colto dal taglio amaro del luppolo che sovviene a fine la sorsata e dal bouquet di spezie. Tanti zuccheri fermentabili portano a 12% di alcool dichiarato, forse di più in realtà… Allo stappo, la schiuma ancora esuberante fa capolino dal collo della bottiglia, fatto affatto scontato per una birra di quasi 4 anni. Per il resto, è un tripudio e una goduria di sentori: la parte maltata è un trionfo di miele, gli esteri del lievito sono un’esplosione di profumi in cui datteri, frutti tropicali (ananas e non solo), albicocca, mela e arancia la fanno da padrone su un ventaglio di ampiezza impressionante. In bocca è opulenta, ricca, lunghissima. Un capolavoro. Prodotta nella stagione invernale, esce millesimata in etichetta (tranne quest’anno, comunque la data è sul tappo) ma il parallelo con le annate del vino è molto limitato, serve più che altro ad identificare quanti anni ha sul groppone. C’è da dire che negli ultimi anni sono stati prodotti probabilmente due differenti batch per anno, con differenze sensibili anche all’interno di una stessa annata. Una varietà "vinicola" che contribuisce al mito. Questa 2007 è rimasta negli annali non solo per la bontà estrema, ma anche per essere una delle edizioni più opulente e debordanti. Stappata per timore degli anni che passano, non ha manifestato in realtà alcun decadimento marsalato se non una leggera ossidazione presto soverchiata e fagocitata dall’enorme fruttato, non appena la birra ha preso un attimo di respiro. La morte sua è abbinarla con lo stollen, possibilmente senza un quintale di zucchero sopra, ma ci accontentiamo anche di un buon panettone artigianale. Tipica birra da scolarsi sotto l’ombrellone come avrete compreso.

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