Ci capisco poco di vini. Il che non vuol dire che sia un’imbecille totale dell’uva fermentata. Mi capita, molto di rado, di sedermi al tavolo di un ristorante di livello. Di quelli con una stella, se non due, appuntata. Di quelli che si fregiano di avere nell’organico un sommeliè, figura mitologica e aristocratica che nel mio personale immaginario dovrebbe essere qualcosa di più di un cameriere vestito bene che raccoglie l’ordine della bevanda, la stappa e te la versa. Io me li sono sempre immaginati come dei vate che ti prendono per mano, ti accompagnano nella scelta, ti raccontano del prodotto, della filosofia di un territorio, della logica dell’abbinamento.
Sono un illuso. L’ho già sperimentato più di una volta sulla mia pelle e sul mio portafoglio. Eppure non mi sembrerebbe neppure una richiesta tanto balzana visto il balzello, quella di avere una consulenza, un’esperienza, due parole spese, una lezione da portarmi a casa che vada oltre le mie rudi impressioni personali. Ci sono ovviamente le eccezioni, quei sommelier che con discreta puntigliosità sanno donare al pasto una dimensione più profonda ed appagante dandomi le coordinate di ciò che sto bevendo. Diciamo però che in ogni caso, anche nelle esperienze meno fortunate, difficilmente il vino proposto in un ristorante di livello finisce sotto la soglia di guardia, tantomeno l’abbinamento, magari asetticamente da manuale, risulta improponibile con il piatto proposto.
Mi chiedo se la stessa conclusione possa essere tratta per quanto riguarda la birra. Che i grandi ed i piccoli del malto fermentato guardino con cupidigia all’alta ristorazione non è certo una novità. L’esperienza dei piccoli artigiani è racchiusa tutta nella parabola commerciale di Teo Musso e dei suoi epigoni sulla quale tante parole sono già state spese. Quella della grande industria, uscita dal letargo con un certo ritardo, è un puzzle che si va via via ricomponendo. Primo tassello: il Dio della cucina
Ferran Adrià e la Estrella Damm. A seguire il semidio (nonché candidato Dio)
Massimo Bottura testimonial di Birra Moretti. Ovviamente non è l'unica stella del firmamento gastronomico italiano ad aver prestato la propria immagine al
D-Day gastronomico dell'industria della birra. Abbiamo anche l’anello di congiunzione fra i due mondi: Bottura che si
tracanna a gollone una birra Baladin. Vengono poi guide gastronomiche che ammiccano più o meno smaccatamente alla presenza in carta di prodotti brassicoli, i corsi AIS-Assobirra di cui
ho già parlato, in un crescendo wagneriano di iniziative finalizzate ad inserire nell’immaginario gourmettaro la birra di qualità (o presunta tale) nel segmento dell’alta (o presunta tale) ristorazione.
Del puzzle il tassello forse più evidente è
l’offensiva web degli industriali della birra partita in pompa magna con una girandola di blog “divulgativi” che fanno perno intorno al sito
I Love Beer. Spulciando quest’ultimo, svetta la terrificante proposta di
visita birraria a Roma. Voglio dire... Blog vari ci tartassano da almeno un paio d’anni circa gli indirizzi romani giusti per bere bene, oramai li conoscono pure i norvegesi, ma che è questo itinerario alla Tafazzi? Il contrappasso per il girone dei dannati del malto fermentato? Ci trovo pure un’intervista birraria, paradigmatica e propedeutica alla mia filippica. E siccome sono sempre in cerca di nuovi amici mi son detto… Diciamolo agli amici buongustai! Il protagonista è
Luca Gardini, pluripremiato giovanissimo miglior sommelier 2010 dell’intero sistema solare. Che sia un mostro sacro del vino non ci piove. E di birra? Non so voi, io ho delle aspettative a questo punto. La lettura dell’intervista fa pensare a Marzullo: fatti una domanda e datti una risposta. O ad un nuovo possibile piatto di cucina d’avanguardia: aria fritta sottovuoto. Una domanda che vada oltre “ti piace la birra?”, “cosa ne pensi di proporla al ristorante?”, non potevano fargliela? Vabbè. Ma i contenuti, a ben guardare, in realtà ci sono. Si trovano nelle foto. Dietro al bicchiere, sullo sfondo, con la giusta messa a fuoco, ecco una trionfale bottiglia di birra Moretti. Un monito. Quello che vi aspettereste di bere seduti al tavolo da Cracco, fra uno champagnone dell’annata giusta e un barolone, ma che sia tradizionalista mi raccomando!
Non voglio esprimere giudizi, né me la voglio prendere con lui. In fondo è solo un caso che assurge ad esempio dell’atteggiamento di un’intera categoria e di un intero settore. Qualche domanda però me la pongo. Anzi, la pongo a voi. Secondo voi si sarebbe lasciato scattare una foto analoga stringendo un tetrapak di Tavernello? Per i malfidenti fra di voi che hanno risposto no: e perché con la Moretti sì? Non ditemi che Tavernello non sarebbe disposto a sponsorizzarlo. La ritiene un’eccellenza birraria? De gustibus... Scarsa conoscenza del prodotto? Non credo. Ho letto che si esercita quotidianamente sul prodotto birra. Anche se l’analisi organolettica è solo un lato della medaglia, poi c’è molto altro su cui lavorare fuori dalle sessioni di degustazione. Anche se ad ascoltare la perfida intervista
"la bionda e la rossa" del mefistofelico Paolo Polli qualche dubbio viene… Scarsa considerazione del prodotto? Può essere, questi sommeliè devono ancora un po’ sgrezzarsi in fatto di birra. Scarsa ricerca sul prodotto? Già sperimentata più di una volta: cantine con una vastità e profondità di etichette vinicole disarmante e poi 4 bottiglie di birra in croce rimediate dal birrificio più vicino o proposte dal commercialone di turno. Scarsa percezione del rischio di mettere la propria reputazione in discussione col prodotto birra? Boh, forse dovrebbero prendere la cosa un po' meno sottogamba. Scarsa considerazione della preparazione birraria della clientela? Non so, probabile. Ma in quest’ultimo caso, provate a metteteli un po’ sulla graticola e guardate poi che succede.
Siete ad un tavolo del vostro stellato preferito ed ecco che il sommeliè vi propone la birra XYZ per accompagnare la vostra idea di gamberi di fiume cotti all’ultravioletto con rosa canina e radici di frassino. Prima domanda: che stile è? Poi: chi è il produttore? Di dov’è? In caso di fallimento (che può essere legittimo) di risposta sullo stile: a che tradizione si richiama? E’ amara o dolce? Secca o morbida? Erbacea o agrumata? Bassa o alta fermentazione? Qual è il bicchiere di servizio più appropriato? Sarà mica una birra che contiene succedanei del malto d’orzo tipo il mais? Sì? Mi potrebbe gentilmente proporre un prodotto senza succedanei? E’ una birra pastorizzata? Sì? Mi scusi: lei proporrebbe un vino pastorizzato? Ah, passaggio in botte! Quale? Vino, cognac, bourbon? Non la conosco: mi può dire una birra simile in modo che possa farmi un’idea di quella che mi sta proponendo? Mi spiega l’abbinamento?
Domande astruse? Non credo. Se parlassimo di vino qualsiasi sommelier da stellato degno di quel nome saprebbe destreggiarsi senza la minima difficoltà. O almeno spero… Lo stesso dovreste pretendere per qualsiasi altra bevanda. Avete paura di non reggere la discussione? Barate. Avete un buon 95% di probabilità di farla franca. E ricordate sempre che alla fine il conto salato sarete pur voi a pagarlo, mica lui. Non sentitevi in colpa. Se chi vi propone il prodotto è all’altezza, godrete appieno dell’intera esperienza gastronomica ed uscirete con nuova conoscenza, nuovi stimoli, un po' di euro in meno ma il sorriso sulla bocca. Se invece vedrete il collo della camicia inzupparsi di sudore, gli occhi strabuzzare e sentirete le unghie stridere sullo specchio, allora meglio andare sul sicuro… Ripiegate sul vino. Per bere birra vi resteranno pur sempre i luoghi da sempre deputati per farlo: i pub.
Respect beer!
(slogan del sito e rivista americana Beeradvocate)