Una volta si chiamava Pianeta Birra ed era il Luna Park annuale degli appassionati. Non che si bevesse meglio di oggi, ma eravamo tutti meno smaliziati: farsi 350x2 km per stringere quattro mani, assistere ad una degustazione di Kuaska, assaggiarsi una Caulier, un paio di emergenti nostrani ed uscire col sorriso stampato pareva una conquista. Di più, un dovere morale. Fiera B2B, da sempre è anche happening per appassionati motivati: il biglietto lo si è sempre trovato, se uno cerca. Una volta dentro potevi provare
tutto, te che sapevi
niente, o quasi. C'erano i padiglioni pieni zeppi, c'erano le installazioni, la musica, le luci, c'erano gli industriali con la loro corte di nani e ballerine. Sopratutto ballerine. Quando Unionbirrai organizzò per la prima volta gli artigiani italiani in un unico stand finirono relegati in un angolo grigio ai margini dell'impero, più fenomeno da baraccone che vera e propria attrazione.
Poi hanno cominciato a perdere i pezzi, uno dopo l'altro. Gli stand faraonici delle multinazionali da un padiglione l'uno sono evaporati. Anche tanta gente è evaporata e con essa un bel po' di business. É arrivata la crisi, prima che arrivasse quella vera. Il recinto si è fatto via via più stretto e che fatica ogni anno riempirlo: olio, vino, pesce congelato, forni a microonde... corridoi e spazi fra gli stand che lievitano anno dopo anno come poolish. Con il cambio di nome si è sancita la fine dell'epoca della fiera monotematica. Tutti quelli del
giro però continuano a chiamarla con suo primo nome, l'unico possibile per il birrofilo, o al limite ti chiedono "ci sei a Rimini?". Ma
Sapore proprio no, non piace a nessuno, non entra in testa. Forse per nostalgia dei tempi andati e per ripicca. Forse perché Pianeta Birra, magari un po' fumettistico, ma era un nome azzeccato.
Non parlerò dei risultati di
Birra dell'Anno, tanto lo si starà già facendo di sicuro da qualche
altra parte. Non racconterò nemmeno chi c'era e chi non c'era e cosa si poteva
assaggiare e cosa c'era di buono. La sensazione - condivisa anche da più di un giudice del concorso - è che il numero di birrifici in continua crescita fatichi a trascinare verso l'alto il livello medio, che il divario fra i big e gli outsiders più che colmarsi si allarghi e che la costanza di prodotto sia ancora un punto su cui lavorare per parecchi birrifici. Naturalmente, ovviamente, sicuramente, sacrostante distinzioni ci sono e prodotti di buono e di ottimo livello non sono mancati in più di uno stand.
Quello che non sono riuscito a scrollarmi di dosso è la desolazione che si respirava in giro, appena usciti dalla riserva felice delle birre artigianali. Una patina di fuori moda, di fuori posto, qualcosa di meccanico, colletti inamidati senza cuore, un affanno commerciale nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, fra cuochi microfonati che cuociono braciole e sguardi divorati dalla noia in agguato dietro a stand anonimi. Ogni tanto, un palla di fieno che rotola.
La vita, quella pulsante di passione, si rifugia tutta sotto le insegne nere (non sarebbe ora di proporre cartelli meno lugubri?) dei microbirrifici nazionali, con centinaia di persone che affollano il circuito di stand di Unionbirrai e che riempono la platea durante la premiazione del concorso. Diranno: ma in fondo sono sempre i soliti. Mica vero: dieci anni fa non giravano mica tutte queste facce. L'interesse per i micro è tenace e in continua crescita, un segnale non da poco in questo panorama contemporaneo di
downshifting.
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