Goswami era un buon diavolo. Guidava il pulmino noleggiato per girare a mio modo il Rajastan: in quel tempo in India non era dato di guidare la macchina da sè, e il prezzo dell'auto era comprensivo di autista. Goswami era un buon diavolo, e parlava un passabile inglese: non dico amici, ma in due settimane si era creato un clima cameratesco. Rideva del suo sorriso bislacco, miracolosamente riparmiato dal
betel, quando tentavo di assaggiare i pestilenziali peperoni verdi che costituivano la sua colazione: tanto piccanti da farmi luccicare gli occhi. Ricordo perfettamente la sua espressione quando gli dissi che noi si mangiava gli asini. Non ci credeva.
Donkey? e faceva il gesto delle orecchie. Già lo avevo tramortito con la notizia dei conigli e dei cavalli, ma ai ciucci non resse.
Doveva essere più o meno la faccia mia quando un altro autista - di cui non ricordo il nome - incluso nella macchina in Myanmar mi condusse al mercato di Pagu per farmi apprezzare le specialità locali. Cavallette caramellate, no grazie.
O il ristorante di rettili a Surakarta, dipinti con mano alquanto
naive sui muri della casa: grossi cobra arrotolati su se stessi. Una specialità. E i
cuy, roditori simili a cavie che a Banos - Ecuador - arrostiscono allegramente sullo spiede?
Eppure a leggere la
Repubblica, che a sua volta legge
Virtualtourist, pare che ci sia ben di peggio: inimmaginabile il festino di polpi vivi che appassiona i coreani, le larve di falena croccanti o il mortale Lutefisk. Ma la cosa che fa strano è che per l'altra metà del mondo, gli Skifidol siamo noi, con asini e piccioni nel tegame...
Gastronomia baluardo del relativismo?