Ero piccolo, bambino, e me le ricordo bene quelle curve della strada vecchia per Alghero, le domeniche mattina, che si andava ad Uri. Canyon bianchi, curve che sembrano gomitoli, fare pochi km e viverli come un viaggio. Ittiri, Uri ed Usini formano un ideale triangolo rovesciato che disegna la parte più settentrionale di quel pezzo d'Isola che risponde al nome di Coros, nel profondo north west. Terra frastagliata, affascinante, povera, il Coros ascolta il mare da troppo lontano, e la sua crosta è ferrosa e scura, che solo i carciofi e gli ulivi sanno davvero cosa farci. E le viti.
Questo territorio, quello di Usini in particolare, è terra di Cagnulari, vitigno autoctono come pochi, quasi zonale, coriaceo e scontroso. Billia e Salvatore Cherchi ne vinificano un'interpretazione autentica e grandiosa. Splendido bicchiere di vinosità dolce, il colore del rubino e della porpora, la composta di susine lunghe e scure. E poi la terra e il tannino masticabile, il Coros insomma.
Si andava ad Uri per trovare Mattia, una donna (in Sardegna, fino agli '60 era nome unicamente femminile), una persona importante per mia madre, una tata, un'Amica, la "sorella" che mia nonna non ha mai avuto e per questo forse ancora più importante, una di quelle figure femminili difficili da decifrare per chi non ha vissuto la società agropastorale dell'Isola.
Mattia, nella mia memoria, era vedova da sempre e sempre era vestita di nero, con lo scialle nero stretto sulla testa. Unica concessione, unico vezzo: il grembiule. Grigio.
Ricordo la casa di Mattia, era lungo la strada, in uno slargo del paese "che ci fanno le manovre le corriere", era bassa, chiara, sembrava piombata giù dal cielo della Baja California, quasi una posada tra cactus e covoni rotolanti nel vento. Poi si apriva la porta ed erano sorrisi, carezze ruvide e papassini senza glassa. Era festa.
Ricordo i racconti di Mattia, solo in sardo, sempre in sardo. Una frase sola mi diceva in italiano, perché voleva essere certa che la capissi, ed era il premio che aspettavo mentre giocavo nel suo orto: "Vai a lavarti le mani. Ma bene però."
Il profumo del ghisadu di Mattia lo porterò sempre con me. Lei, vedova di macellaio, sapeva utilizzare i ritagli piccoli e grassi degli agnelli come nessun'altra. Li soffriggeva nell'olio d'oliva denso e scuro, poi ci buttava il battuto di cipolla, poi i bicchieri di vino nero. Rosolato per bene, l'agnello veniva unito al pomodoro pelato e maturo, tondo. A chiudere, le foglie immense di alloro. Forse perchè ero piccolo, ma io foglie di alloro così grandi, non le ho mai più viste.
Con il ghisadu Mattia ci condiva la sua pasta, quella che faceva, in piccole quantità, ogni settimana. Pasta grezza, scurissima e porosa, che faceva con poca farina di grano duro ma soprattuto con su chivasu, la farina di crusca, quella povera, che si usava per il pane di ogni giorno perchè i soldi per la farina bianca erano soldi buttati. Tagliata a rombi larghi, storti e spessi, la pasta si ingrossava di ghisadu, palpitava, si impregnava di profumo e meraviglia, e mai, le domeniche, erano più belle.
Se Mattia ci fosse ancora, se potessi rituffarmi nel suo ghisadu, sarebbe inevitabile berci due bicchieri di Cagnulari insieme. Ma solo dopo essermi lavato le mani. Ma bene però.