Mi piacerebbe essere uno di quei decani dell'enoletteratura che possono dire Conobbi Mevio Caio negli anni sessanta, quando faceva il vino in dame e lo vendeva sfuso agli emigranti che tornavano a casa sull'Aurelia. Non posso, perchp negli anni sessanta giuocavo con le bisvalide.
Invece posso dire che ho conosciuto Giampaolo per cose di vacanza: ero lì a un metro e il tizio dell'agruturismo mi ci menò. Parlammo. Bevemmo. Ne nacque una corrispondenza eccetera. I suoi vini mi piacevano: grassi e polputi. Forse il Finisterre un po' meno, ma mi piacevano.
Poi è successo qualcosa. I vini di Poggio Argentiera sono dimagriti sotto la spinta di una ricerca continua di vigne e di cloni, di vitigni e di zone. La finezza, ecco. E magari anche l'agilità.
Allora nell'ampia panoplia dei vini pagliani (e camilliani, visto che il fido Antonio Camillo è lì e vigila) ricordo: il vigoroso Vallerana Alta, ciliegiolo in purezza, una singola vigna di cinquant'anni molto sudista, dalle parti di Capalbio: teso e vivido al naso, riconoscibile e gustoso all'assaggio: il Sauvignon Alture, che dice di cose assai più nordiche per esperessività, pur essendo caldamente vulcanico per le sue radici pitiglianesi.
E infine maestosamente sottile, finemente intenso il new - Capatosta, morellino 2009. Scarico al colore, schiettamente sangiovesizzato. Poi quel profumo con inserti di frutta di giusto peso, e piccole animalità sotto controllo. E poi la complessità del sorso vero, ampio e sincero, profondo senza essere denso. Progetto di stravolgimento fin dalle fondamenta con l'estirpazione delle fatidiche barriques, e le botti grandi, e la visione mistica di un vino che soprattutto deve piacere a chi lo produce.
A vederlo, il Paglia: sta seduto con una postura da pascià, intriso di una sorta di buddhità enologica che gli stira il volto, quasi ringiovanisce ancor più dei suoi 39 29 anni.