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Wine powder

pubblicata il 11.04.2013

Da un po' di tempo sono in vendita diversi kit per farsi il vino in casa. Il modello è quello della birra autoprodotta, che ha riscosso e continua a riscuotere un grande successo. È facile infatti incorrere on line, nelle ferramenta o nelle rivendite agrarie, in kit di facilissimo uso per farsi la birra. Di solito si tratta di un fermentatore con gorgogliatore, un po' di metabisolfito di potassio per disinfettare e un tubo per l'imbottigliamento. La procedura è molto semplice: si sceglie la tipologia di birra preferita, si compra il bussolotto di malto già luppolato corrispondente, lo si scioglie in acqua calda, e si mette il tutto nel fermentatore. Dopo un po' di giorni in cui i lieviti lavorano per trasformare lo zucchero si imbottiglia con l'aggiunta di un po' si zucchero e si aspetta che venga terminata la seconda fermentazione in bottiglia. I risultati, soprattutto all'inizio, sono spesso molto discutibili, ma in molti si appassionano e proseguono verso metodi di produzione più sofisticati, fino magari ad aprire un microbirrificio. Con il vino le cose si fanno un po' più complicate, perché il problema è procurarsi la materia prima: l'uva. Esistono però ancora i garagisti, che si fanno il vino a partire da piccoli appezzamenti di proprietà, o acquistando l'uva da qualche conoscente. Per saltare le tappe e rendersi la vita più facile c'è ancora chi acquista vino sfuso in cantina e se lo imbottiglia a casa, magari alla ricerca di una seconda fermentazione per dargli un po' di brio. Tutto ciò, entro certi limiti è perfettamente legale, come è legale farsi la birra in casa per autoconsumo. Il problema è che il vino è sottoposto a una rigida legislazione a livello italiano ed europeo, perché è proprio l'Europa che legifera sulle Denominazioni di Origine in campo alimentare, compreso ovviamente il vino. I kit per fare il vino sono facilmente rintracciabili in rete, su siti di e-commerce stranieri, che sono in grado di spedire in tutto il mondo. Il kit comprende normalmente mosto d'uva liofilizzato, la bustina dei lieviti per dare il via alla fermentazione, più una serie di altre  polveri da utilizzare per produrre il vino desiderato. L'utente finale deve solo aggiungere acqua, seguire le istruzioni, e in circa 15 giorni ha a disposizione una bevanda colorata che mi viene difficile chiamare vino, ma che così viene venduta. I kit normalmente permettono di ottenere circa 30 bottiglie. Il problema è che vengono spesso e volentieri utilizzate le denominazioni italiane per attirare gli acquirenti: Chianti, Prosecco, Lambrusco,  Valpolicella, solo per fare alcuni nomi. Questa è una palese violazione della normativa, perché questi nomi sono legati alle denominazioni di origine, tutelati - in teoria - a livello mondiale e normati da una legislazione molto dettagliata, che ovviamente non permette la vendita di kit di vino in polvere. Ma l'italian sounding continua ad attirare, e all'esterno è visto come sinonimo di qualità, quindi viene spesso utilizzato, con danni enormi per i veri prodotti enogastronomici Made in Italy, stimati per il vino in polvere attorno ai 200 milioni di euro. Qualcosa, dopo le denunce di trasmissioni televisive e associazioni di categoria, sembra però muoversi. Il Commissario Europeo all'Agricoltura Dacian Ciolos, ha infatti risposto ad un'interrogazione dell'europarlamentare italiana Marta Bizzotto sul caso. Già nei mesi scorsi aveva esortato gli stati membri a far ritirare dal mercato questi kit per il vino, ma nei giorni scorsi ha rincarato la dose. La minaccia adesso è di provvedimenti sanzionatori nei confronti delle aziende produttrici, ma anche dei siti e delle piattaforme di e-commerce che lo mettono in vendita. Speriamo solo che alle parole seguano anche i fatti. Immagine: wine kits

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