La
graspia è un prodotto dei tempi andati. Quando si stava meglio - dicono - anche se si stava peggio. Ed è anche un prodotto controverso. Almeno per me. Si tratta a tutti gli effetti di un sottoprodotto della vinificazione, ma quello che non è molto chiaro è la sua collocazione nella catena del “non si butta via niente”.
I testi sacri di gastronomia del vicentino riportano il termine
graspia come sinonimo di
vin piccolo, anche se le testimonianze che ho raccolto tendono a separare i due termini e i due prodotti. Mi spiego: un tempo il vino era un alimento indispensabile per il sostentamento degli agricoltori. Per questo, più che alla qualità si puntava alla quantità. E destinare le vinacce alla distillazione casalinga subito dopo la svinatura sembrava un grosso spreco. Per questo, dopo aver ottenuto il cosiddetto
vin grosso, ottenuto appunto dalla prima fermentazione e destinato ai momenti di festa, si aggiungeva alle vinacce acqua calda, per far partire nuovamente la fermentazione. Si otteneva così un sottoprodotto chiamato normalmente
vin piccolo, di gradazione inferiore rispetto al
vin grosso, destinato al consumo quotidiano. La tradizione orale riporta però una seconda aggiunta di acqua calda, dopo la svinatura, se così vogliamo chiamarla, del vin piccolo. Questo secondo sottoprodotto, di gradazione praticamente tendente allo zero, era la
graspia. Acqua colorata, praticamente, leggermente acidula e rinfrescante, destinata più che altro al consumo estivo. Oppure alla produzione delle composte.
Per arrivare alle composte bisogna partire dalla verza. Un tempo era molto coltivata per motivi che esulavano dalle proprietà salutistiche che le vengono oggi riconosciute: è un ortaggio molto rustico che necessita di poche cure e ha una produttività per unità di superficie molto elevata (si arriva a 500 quintali per ettaro). Se gli esemplari più grossi venivano venduti, quelli più piccoli, dopo aver subito alcune gelate, venivano tagliati a metà, sbollentati in acqua e
graspia nella proporzione di tre a uno, e lasciati raffreddare. Venivano poi messi in contenitori di legno alternando strati di verza con manciate di sale grosso, aglio e chiodi di garofano. Venivano poi abbondantemente irrorati di
graspia, e schiacciati con un peso. Partiva così una fermentazione lattica, che garantiva la conservabilità delle verze e una delicata acidità da parte del prodotto finito. Le composte venivano estratte dopo minimo 40 giorni, risciacquate e cotte per accompagnare il lesso e la carne di maiale in genere.
La tradizione prevedeva, e prevede tuttora, una lenta cottura coperta con l’aggiunta di cipolla, aglio, e un paio di costine di maiale, che possono essere sostituite con delle cotiche o la goletta. Dico prevede perché c'è ancora qualche pazzo scatenato che si ostina – grazie al cielo – a produrle e a commercializzarle. Questo nella zona di Montorso Vicentino, che ci crede talmente che ha istituito anche una De.Co. E se è vero che l'acidità sarà la nuova moda, le composte di Montorso hanno tutte le carte in regola per sfondare.
Foto da Flickr di wwarby