La gastronomia è un vero libro di storia delle popolazioni: questa pitina ne è un capitolo davvero chiarissimo.
La pitina è un salume, ma non è un insaccato: la difficoltà di reperire budella adatte nelle zone di montagna ha forzato l'inventiva umana ad altre forme di conservazione: in questo caso una leggera affumicatura e il passaggio nella farina di mais. Dunque una vera e propria polpetta di ritagli di carne, che si consumava dopo breve stagionatura.
La pitina infatti è composta da un pesto di carne ovina e caprina, ingentilita da lardo di maiale soprattutto nella versione contemporanea, e abbondante uso di aglio, pepe ed erbe. In origine era utilizzata anche carne di selvaggina, soprattutto camosci e caprioli, in parte presenti anche nell'esemplare assaggiato. Il pesto viene poi composto in polpette semisferiche, ben impolverato di farina di mais e affumicato con varie essenze montane, anche se il canone vorrebbe l'uso di solo pino mugo.
Si presenta come una pallotta della dimensione di un muliebre pugno, e da "piena" può facilmente essere scambiata per un sasso. Ha trama fitta e pastosa, piuttosto morbida, di un rosso carminio fitto e profondo. Al taglio presenta lardelli di media grana non stracciati.
Il profumo è denso, scuro di fumo e di odori d'ombra. Le carnosità sono obliterate dalle spezie, anche se traspaiono aromi più nervosi, silvestri.
L'assaggio è comunque fresco, pur se asciugato dalla farina di mais cruda, e prorompe subito delle piccanze da pepe. La fibrosità delle carni impegna il palato che s'arrende poi alla dolcezza delle parti di mezzo, in cui non si risparmiano le scudisciate dell'aglio.
Gusto robusto, dalla persistenza soda e testarda. Un assaggio assai poco salottiero, ma di certa e rustica soddisfazione.
La pitina assaggiata è stagionata circa 45 giorni, ma si può consumare anche dopo 10 giorni dall'affumicatura ma cotta, servita con polenta.
La Pitina della Valtramontina è un presidio Slow Food.