La domanda è sconcertante nella sua banalità, ma affatto scontata. Etichetta alla mano, ingredienti: acqua, malto d’orzo, ecc. Al vostro tavolo un amico ordina una famigerata doppio malto ma c’è chi vuole strafare e si sincera che quella strong ale da 10% sia davvero una
triplo malto… Chi offre di più? Al supermercato una birra coi baffi di metallo pregiato si vanta di essere di puro malto d’orzo. Un filo di inquietudine sale pensando a cosa potrà mai esserci dentro una birra che non dichiara tale purezza: sarà in quel caso corrotto, lascivo, artefatto, contaminato, OGM?
Qualche parvenu pontificante dell’ultim’ora potrebbe addirittura vacillare di fronte alla questione: ma cosa diavolo è il malto? Lo diamo tutti per scontato come l’aria che respiriamo mentre stappiamo una birra eppure non sono tanto sicuro tutti sappiano cosa sia davvero e che utilizzo se ne fa.
L’ingrediente principe della birra, come tutti sanno, è il malto d’orzo. Senza di esso otterreste forse un’altra bevanda, ma non una birra. Indicativamente rappresenta come minimo il 50% degli zuccheri fermentabili del mosto. Un malto altro non è che un cereale che ha subito un processo di maltazione, il che vuol dire che i chicchi sono stati messi a bagno per pochi giorni, fatti parzialmente germinare e quindi essicati. Questo processo ha due funzioni fondamentali: la creazione di enzimi e la parziale disgregazione di amidi e proteine in composti più utili alla produzione della birra.
Naturalmente di malti ne esistono una discreta quantità. Si differenziano per tempo e temperatura di essiccatura, col risultato che avremo malti di colori diversi che apporteranno caratteristiche diverse, dal sapore “maltato” comunemente inteso che ricorda il miele ad un inteso caramello fino ai malti più scuri che donano note biscottate, di frutta secca, cioccolato, caffè tostato e liquerizia. Pare banale ma così non è viste le domande che ogni tanto ti pongono: è il malto a dare il colore alla birra, non il luppolo o chissà quale altro ingrediente.
Una cosa che non tutti sanno è che basta una piccola percentuale di malti tostati a rendere una birra di colore nero impenetrabile. La base di una birra è infatti sempre realizzata con ampie percentuali di malti di colore chiaro o lievemente ambrato, ricchi di amidi e di enzimi che durante la fase di ammostamento apporteranno gli zuccheri necessari alla successiva fase di fermentazione. La miscela di ingredienti prescelta viene messa in infusione a diverse temperature e per tempi differenti. L’interazione fra enzimi, cereale e temperature lascerà nell’acqua differenti tipi di zuccheri e proteine che saranno cruciali per il risultato finale, in particolare per quanto riguarda corpo e schiuma.
Non solo l’orzo può essere maltato, ma anche altri tipi di cereali: il più noto è il frumento che tutti conoscono nelle Weisse tedesche, ma si malta anche la segale e il farro ad esempio. Si possono usare anche cereali non maltati con i dovuti accorgimenti in ammostamento: anche qui la fa da padrone il frumento, usato ad esempio nelle Wit/Blanche del Belgio, ma praticamente ogni cereale può essere usato.
Che vorrebbero comunicare quindi oltre al marketing certe birre industriali indicando “puro malto d’orzo”? In sostanza che si è usato al 100% quell’ingrediente. La cosa, nelle birre di qualità, non è di per sé un merito come si è detto, nulla di male se metto il 10% di segale in ricetta. Il punto è che le birre di bassa qualità utilizzano spesso succedanei, vale a dire in genere mais e/o riso. Nemmeno questo di per sé sarebbe un difetto se l’apporto avesse una finalità qualitativa, mi è capitato ad esempio di assaggiare una curiosa ma interessante birra giapponese prodotta con una varietà locale di riso rosso. Il problema è che la scelta dei succedanei nell’industria ha un’unica prevedibile finalità: la riduzione dei costi, ovviamente a scapito della qualità. Ecco quindi che, scrutando fra gli ingredienti di tante famose birre di massa, troveremo indicati questi famigerati succedanei di bassa qualità. Difficile trovare un bevitore educato che trovi interessante ed apprezzi quella nota di mais in scatola e mangime tipica di molte lager “da battaglia”.
Per le birre ad alta gradazione c’è un altro ingrediente utilizzato spesso e volentieri: lo zucchero, tipicamente candito, oppure di canna, destrosio, ecc. Qua il confine fra esigenze di stile ed economicità è più labile: se è vero che lo zucchero costa meno del malto – e forse lì nasce storicamente il suo utilizzo – vero è anche che esso è assolutamente indispensabile in alcuni stili del Belgio ed utilizzato pure nel Regno Unito e in USA per la capacità di aumentare la gradazione alcolica senza rendere il corpo troppo pesante, donando quindi secchezza al prodotto finale e migliorandone la bevibilità.
La lista degli ingredienti zuccherini non finisce certo qua. Abbiamo il miele, usato in diverse birre stagionali di ispirazione belga. Abbiamo le castagne, molto in voga in Italia al punto da poter parlare di vero e proprio stile italiano. C’è il lattosio nelle Milk Stout, che è uno zucchero non fermentabile e serve a dare la dolce morbidezza del latte tipica di quello stile. Abbiamo la frutta, anche questa usata nella tradizione belga delle birre acide o come “ingrediente segreto” in certe Ale e oggi in gran voga anche in America e in Italia. C’è pure il mosto d’uva, utilizzato da alcuni birrifici italiani. Chi più ne più ne metta, il limite è la creatività e ovviamente il buon senso.
Immagine: Birra Almond