"E' uno jambon, non è un prosciutto." Questa è la prima verità che mi regala Bruno Fegatelli, quasi sulla porta del salumificio giocattolo "De Bosses", a Saint-Rhémy-en-Bosses. Siamo in Val d'Aosta, in fondo ad una profonda valle alpina.
Tutto qui è estraordinario. Impiego parecchio a rendermi conto della misura, della mistura di storia sapienza e cocciutaggine racchiusi in quella gamba di maiale: qui si fanno jambon da più di seicento anni. I monaci del Gran San Bernardo stagionavano i prosciutti per scopi commerciali. Avevano entrambe le cose non trasferibili per fare i prosciutti: il sale delle miniere poco oltre confine, e il clima. Da qui la tradizione quasi millenaria, che ha alcune particolarità uniche al mondo: perdi volentieri la giornata ad ascoltare Bruno che le racconta.
Prima di tutto il clima: siamo a 1700 metri, e la strada per il passo è chiusa 8 mesi all'anno. Mentre tutti gli altri prosciutti del mondo cercano il fresco per stagionare, qui va ricreato il caldo: il magazzino d'invecchiamento non può scendere sottozero. Quindi: riscaldamento. Poi il fieno: per ammortizzare gli scambi di umidità il pavimento è coperto di fieno. Non ha funzioni aromatiche, ma di compensatore di umidità: lo jambon perde quasi il 50% di peso nei 12 mesi di affinamento necessari per la marchiatura DOP. Poi il ginocchio piegato: una tecnica antica e scaltra per tenere le carni compresse. Ancora: la stuccatura, che lascia un dito di spazio attorno al taglio. Lo jambon "tira" per effetto di quella perdita di peso, e se non ci fosse lo spazio per la riduzione la stuccatura si rovinerebbe.
Ad un primo sguardo lo jambon in effetti sembra "piccolo" proprio in virtù della perdita di peso e del ginocchio piegato: in realtà le cosce provengono da maiali pesanti, di razze contemporanee, dell'area padana. Qui non è consentito allevare maiali, e c'è un motivo storico: la carne macellata non era soggetta ai favolosi dazi applicati sul sale, e poteva circolare meglio. Documenti storici registrano i movimenti di carni fresche macellate anche al tempo dei monaci.
Saint-Rhémy è un comune montano di ben 180 abitanti. Ha tre cose: il freddo, per gli impianti e la pista di guida sul ghiaccio; gli jambon; il carnevale, una giocosa messinscena in cui la comunità prende in giro i suoi componenti. E Napoleone, che da queste parti smarrì la strada.
Il "borgo" storico sta un paio di chilometri più in su, poco prima del punto in cui l'ANAS si arrende e lascia la strada ingombra - ancora - di un metro di neve, fino alla metà di aprile. Per gestire il prosciuttificio nei mesi innevati si usano mezzi a trazione plurima, degli arnesi a sei ruote con il motore benzina, perchè il gasolio a -20° congela.
Lo "stabilimento" pare passato al miniaturizzatore: spazi angusti, dove ogni metro quadro è prezioso. Tutto è compresso, tanto che si passa tra i banchi di salagione solo di fianco. Gli addetti sono 9, in un comune da 180, significa un punto decisivo dell'occupazione locale. Tutto per produrre 3500, 4000 pezzi l'anno.
Per questo lo jambon si posiziona al vertice di costo. L'assaggio dice che vale il prezzo, il viaggio, il tempo: un assaggio di carattere, elegante ed austero come ti immagini debba essere, guardando il catino di quattromila che ti circonda. Ma questo lo vedremo presto, sempre su questi pixel.