Dobbiamo sempre affidarci all’etichetta per capire da dove arriva un cibo che stiamo per comprare e se è di qualità, ma con il pesce possiamo fare anche altro.... Leggi tutto
I burger a base vegetale sono solo “americanate”? Tutt’altro: ecco due storie di successo, diverse ma simili fra loro, che arrivano dalle terre del ragù e del prosciutto di Norcia"
“Basta con tutte queste americanate, io mangio italiano”, perché “niente batte il made in Italy”: questa, insieme con quelle su “ma chissà cosa c’è dentro” e quelle su “eh, ma allora la soia?” è fra le obiezioni più frequenti sollevate quando si parla di alternative vegetali alla carne, soprattutto di quelle che da un paio d’anni a questa parte hanno invaso i nostri supermercati. Un po’ ha senso, perché i 2 produttori più famosi della cosiddetta non-carne arrivano in effetti dagli Stati Uniti (tutti e due dalla California, fra l’altro), ma anche non ha più molto senso, perché ormai la carne vegetale la facciamo pure noi in Italia. La facciamo vicino a Bologna, terra dell’omonimo ragù famoso in tutto il mondo, e anche non molto distante da Norcia, da dove arriva il noto prosciutto crudo.
Anche perché la “moda” della carne alternativa non è più tanto una moda, e quella che era una nicchia del mercato non è più tanto una nicchia: come abbiamo scritto a metà 2020 e poi ancora a inizio 2021 nell'articolo Sì, il 2020 è stato davvero l’anno della non-carne, il settore del plant-based è cresciuto tantissimo negli ultimi 12 mesi, arrivando a una valutazione complessiva di circa 10 miliardi di dollari, con le previsioni che lo danno in crescita sino a quota 20-30 miliardi nei prossimi 5-6 anni. In Europa, hanno dedicato risorse allo sviluppo di questi prodotti sia Findus sia Nestlé, sia Ikea; in Italia li fanno Via Emilia e Valsoia, ma in questa pagina vogliamo raccontare altre due storie: sembrano diverse fra loro, ma entrambe confermano l’esistenza di una sorta di “via italiana” a questo cibo, un approccio che ci distingue dagli americani.
La prima storia ha a che fare con Granarolo, un colosso con oltre 60 anni di storia alle spalle, 2500 dipendenti, 12 stabilimenti in Italia e 8 all’estero, che fattura oltre 1 miliardo di euro l’anno. Che c’entra la bolognese Granarolo con la non-carne? C’entra, perché esattamente un anno fa ha messo in vendita il suo Unconventional Burger, appunto fatto solo di ingredienti vegetali: “Abbiamo iniziato a lavorarci fra 2018 e 2019 - ci ha raccontato Mauro Fumagalli, responsabile del reparto Ricerca & Sviluppo dell’azienda - Sono serviti circa 6 mesi per la ricerca degli ingredienti giusti e più o meno un anno per i vari test, per trovare non solo il gusto che volevamo, ma pure la consistenza e l’aspetto”. Per arrivare a un prodotto che replicasse la carne, ma senza sembrare artificiale e artefatto.
In realtà, l’interesse di Granarolo per questa fetta del mercato è incominciato prima: nel 2015 è stata sviluppata la linea di bevande 100% Vegetale, alternative al latte, e qualche anno più tardi è stata rilevata la ConBio, un'azienda di Rimini specializzata proprio in gastronomia vegetale, nel cui stabilimento, rimodernato e rinnovato per questo, vengono prodotti gli Unconventional Burger (la confezione da due costa circa 4,5 euro): “Ci siamo accorti che il mercato sta cambiando, che soprattutto gli under 30 sono attenti e interessati a questo tipo di offerta - ci ha spiegato Fumagalli - Volevamo un prodotto che andasse bene per i cosiddetti flexitariani (chi sono l’abbiamo spiegato con l'articolo Reducetariani, vegetariani, vegani: le 8 diete alternative più diffuse, per chi magari non vuole evitare del tutto la carne, ma soltanto ridurne il consumo. Volevamo che queste persone potessero scegliere non solo sulla base dell’etica, come fatto sinora, ma anche venissero convinte dal gusto”. Soprattutto, Fumagalli e il suo team volevano una lista di ingredienti breve, che può essere davvero la “chiave italiana” alla non-carne: “Il cuore di tutto è la soia, che abbiamo scelto per la sua elevata digeribilità, cui si aggiungono fibre di agrumi, amido di patata e grassi che arrivano da cocco e olio di semi di mais, oltre alla barbabietola per dare il colore”.
Non è stato facile, non solo perché “per scegliere la tonalità giusta abbiamo provato più o meno 200 varianti di rosso”, ma anche perché c’erano da vincere un po’ di resistenze interne, comprensibili in un’azienda il cui zoccolo duro è formato da oltre 600 allevatori: "Qualcuno ci ha detto che avremmo avuto difficoltà, soprattutto in Italia - ha ammesso Fumagalli - Che la cosa non avrebbe funzionato, insomma". E invece ha funzionato eccome: nel corso nel corso dell’ultimo anno la risposta dei consumatori è stata molto positiva, talmente tanto che Granarolo sta pensando di portare gli Unconventional Burger pure all’estero. Non solo: sono già pronte le nuove confezioni di carta riciclata, un altro buon segnale nell’ottica del rispetto dell’ambiente, e da qualche settimana sono in vendita pure i nuovi Mini Burger. E poi? “E poi stiamo pensando a una salsiccia a base vegetale e pure ad altri tipi di carne”. Anzi, non-carne. Però fatta in Italia.
Dall’altro lato dello spettro c’è Joy Food, un’azienda piuttosto piccola che ha sede a Piegaro, un paesino in provincia di Perugia, e che da poco più di un anno vende bastoncini, dadini e straccetti al gusto di manzo, pancetta e pollo. Ma ovviamente fatti con i vegetali: “L’idea di creare prodotti alternativi alla carne - ci ha spiegato Alberto Musacchio, che l’ha fondata e la dirige insieme con la moglie e il figlio - mi è venuta fra 2015 e 2016. È servito tempo per trovare il capitale necessario per partire (circa 10 milioni di euro, ndr) e più o meno un anno e mezzo per mettere in piedi lo stabilimento che avevamo in mente”. Perché così tanto tempo? “Fare un burger è facile: trovi gli ingredienti, stabilisci le dosi di ognuno, li metti insieme e compri una macchina che te ne sforna 20mila l’ora. Noi volevamo fare altro”. Volevano fare una cosa che in Italia non si era ancora fatta: usare il processo di estrusione a umido inventato dal Laboratorio del Cibo dell’Università olandese di Wageningen proprio per cercare alternative alimentari più sostenibili ai cibi di derivazione animale. Come funziona? “Abbiamo un macchinario lungo più o meno 12 metri al cui interno mettiamo acqua e una farina iperproteica a base di soia: viene lavorata, stirata, allungata o compattata per darle la consistenza che vogliamo. È più o meno quello che si fa con la pasta, quello che una volta facevano le nostre nonne, solo che non viene fatto a mano”. Ed è così che nascono bastoncini, dadini e straccetti che sono fatti di verdure ma sanno di carne.
Questo tipo di lavorazione è utile anche perché permette di tenere corta la lista degli ingredienti, perché non serve aggiungere nulla di artificiale, come aggreganti o addensanti: “Il prodotto sta insieme grazie alla texture data dal macchinario - ci ha detto Musacchio durante la nostra videointervista - e dentro, oltre alla soia, ci sono solo olio di girasole, sale, erbe aromatiche ed estratto di lievito per dargli quel gusto un po’ umami”. Che poi è il sapore della carne.
Oggi Joy ha una decina di dipendenti, i suoi prodotti sono in vendita anche nei supermercati Esselunga e costano circa 3 euro a confezione (da 165 grammi), ma presto le cose potrebbero cambiare e le prospettive ampliarsi: “Abbiamo appena concluso un round di finanziamenti che ci ha permesso di raccogliere 3 milioni di euro da 2 investitori privati e soprattutto da una multinazionale attiva nel settore della grande distribuzione”, ci ha anticipato Musacchio, non nascondendo l’intenzione di portare così i suoi prodotti al di fuori dei confini italiani. Non solo: sono state cambiate le confezioni di bastoncini, dadini e straccetti ed entro fine 2021 ne arriveranno altri, come burger e piatti pronti. Comprese le lasagne al ragù, però vegetale.
E se ti resta ancora qualche dubbio su “che cosa c’è dentro?” e sulla questione della soia, nei mesi scorsi abbiamo messo a confronto un burger veg e un hamburger tradizionale per capire non solo cosa contengono, ma pure qual è più salutare (nell'articolo Burger veg e hamburger tradizionale in sfida: qual è più sano?) e abbiamo cercato di spiegare come stanno davvero le cose su uno degli alimenti più coltivati al mondo (in Sfatare le fake news sulla soia: fa male, non fa male, devasta l’ambiente, chi è che la mangia per davvero).
Si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.
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