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Si è concluso la settimana scorsa il Summit FAO dedicato ai sistemi alimentari e alla loro necessaria trasformazione per realizzare gli obiettivi ONU di sviluppo sostenibile. Ecco quali sono le azioni più urgenti da attuare
Alla fine della settimana scorsa si è tenuto a New York il Summit delle Nazioni Unite dedicato ai sistemi alimentari che ha concluso (per la precisione il 23 settembre) il percorso iniziato a Roma con l’appuntamento del Pre-Summit del luglio scorso, di cui vi abbiamo parlato nel nostro articolo “È in corso a Roma il Pre Summit della FAO sui Sistemi alimentari. Ecco di cosa si tratta”.
La pandemia di COVID-19 – a sua volta legata alla produzione di cibo, di cui sono esempio proprio quegli allevamenti intensivi che facilitano il passaggio all’uomo delle patologie di origine animale come il Coronavirus – ha fatto aumentare il numero di coloro che vivono in povertà, portandolo a 124 milioni di persone, una cifra che si prevede possa raggiungere i 600 milioni nel 2030; con la povertà cresce inevitabilmente anche la denutrizione, aumentata nel corso 2020, con stime che parlano di numeri tra i 720 e gli 811 milioni di persone denutrite a livello globale. Il problema, inoltre, costa all’economia globale migliaia di miliardi di dollari l’anno, spesi in aiuti e in soluzioni emergenziali che non sono né sostenibili né efficaci sul lungo periodo. Un adeguamento e un’urgente trasformazione dei sistemi alimentari sono indispensabili per rispondere a queste problematiche, fornendo a tutti cibo sicuro, abbordabile e nutriente. Un obiettivo che, se realizzato, porterà maggiore salute e prosperità, per i singoli cittadini e per le comunità.
A queste necessità non poteva restare sorda la FAO, che già nell’ottobre 2019, come annunciato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres, ha iniziato a programmare il Summit; questo è stato investito del fondamentale obiettivo di far progredire l’ONU e tutti i Paesi aderenti, di concerto, sul tema dell’alimentazione globale, dei problemi che lo riguardano e delle sfide che questi pongono per il futuro: dalla scarsità delle risorse alla crescita demografica, all’inquinamento. Il Summit FAO sui sistemi alimentari ha visto la partecipazione di migliaia di persone e associazioni di categoria da tutto il mondo, coinvolte in iniziative promosse da organizzazioni della società civile, tra cui un ruolo di primo piano hanno avuto agricoltori, donne e giovani. Proprio loro sono stati individuati dalle Nazioni Unite in primis come attori centrali per la realizzazione e il funzionamento di sistemi alimentari più sani, più equi e allo stesso tempo più produttivi. In particolare, perché questi siano attuabili, è fondamentale il ruolo dei popoli indigeni che, infatti, sono stati coinvolti, attraverso 300 organizzazioni, nei dialoghi istituiti dal Summit in sette regioni socio-culturali individuate come luoghi cardine. Questo in alcuni casi ha determinato la linea dei governi nazionali: ne è un esempio l’impegno della Nuova Zelanda, la cui prima ministra Jacinda Ardern ha annunciato l’adesione del Paese alla Coalizione dei sistemi alimentari dei popoli indigeni, attraverso la promozione del ruolo dei Māori e dei loro sistemi agricoli, rafforzando la loro leadership e l’equità all’accesso ai ruoli di potere.
Leadership, parità di diritti, economia, società e politica, quindi, sono tutti temi direttamente collegati a quello dell’alimentazione, della produzione di cibo e dell’ambiente. Da questa consapevolezza sono maturati 148 impegni collettivi o istituzionali presi come culmine di un processo inclusivo durato mesi: una tale inclusività non ha precedenti in appuntamenti di questo tipo, elemento che è stato sottolineato anche da Elizabeth Nsimadala, presidentessa delle organizzazioni panafricane degli agricoltori (PAFO), che rappresenta 80 milioni di agricoltori in 50 Paesi africani.
Questi impegni, che sviluppano il discorso avviato a Roma a luglio, sono riconducibili a cinque azioni delineate dal Summit come urgenti per rendere la produzione di cibo più sostenibile e più equa, ma anche abbondante. Il primo campo d’azione, non a caso, è quello individuato per garantire a tutti l’accesso a cibo sicuro e nutriente, seguito immediatamente dal passaggio a modelli di consumo sostenibili e dal rafforzamento dei sistemi produttivi naturali, percorsi interconnessi che non possono che procedere di pari passo; e, ancora, garantire equità nei mezzi di sussistenza e creare resilienza nei confronti delle vulnerabilità sono le azioni che completano il cammino che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe trainarci verso un futuro sostenibile in cui nessuno soffra la fame.
Tutti questi settori d’intervento sono legati strettamente alla sostenibilità ambientale, perché i sistemi alimentari oggi da un lato contribuiscono alla crisi climatica e dall’altro, a causa di essa, sono sempre più sottoposti a stress e condizioni estreme; queste possono causare, per fare un esempio, la perdita dei raccolti agricoli e, di conseguenza, una scarsità di cibo da un lato e l’aumento dei prezzi dall’altro, che a loro volta rafforzano ulteriormente quelle diseguaglianze economiche e sociali di cui sono vittima sempre di più, anche a causa della crisi climatica, proprio coloro che sono già vulnerabili.
Per questo, l’azione per promuovere il cambiamento deve necessariamente connettere iniziative in materia di finanza, di governance, scienza, innovazione, tecnologia e altro ancora. Ovviamente non è semplice e non mancano le critiche nei confronti del Summit stesso e delle strategie che promuove per inseguire quei lodevoli obiettivi. Il vertice, infatti, è stato co-organizzato dal World Economic Forum e ha visto nel ruolo di inviata speciale del Segretario Generale dell’ONU Agnes Kalibata, presidentessa dell’Alliance for a Green Revolution for Africa (AGRA), un’iniziativa che punta a eradicare la fame nel continente attraverso l’instaurazione di monoculture e di largo impiego di fertilizzanti e pesticidi controllati da multinazionali come Monsanto e Syngenta; strumenti, cioè, che a livello globale contribuiscono a impoverire i suoli e sfavorire le locali realtà contadine e i loro sistemi alimentari tradizionali e rispettosi dell’ambiente. Per questi motivi, secondo i critici, il Summit della FAO non può davvero risolvere le cause dei problemi che oggi si stanno aggravando e che ci pongono importanti interrogativi per il futuro: gli obiettivi sono condivisi, cioè, ma non lo sono i modi indicati per raggiungerli.
Efficaci o meno che siano gli strumenti della FAO, quel che è certo è le attuali filiere produttive e gli attuali modelli di consumo non sono solo inadeguati a raggiungere gli obiettivi di azzeramento di fame e povertà fissati per il 2030, ma contribuiscono alle criticità. Basti pensare che la produzione di cibo è responsabile di un terzo di tutti i gas serra emessi globalmente dall’attività umana e che, in particolare, l’allevamento di animali da carne causa il doppio dell’inquinamento rispetto alla produzione di alimenti a base vegetale, come ha evidenziato uno studio pubblicato su Nature a cui ha preso parte anche l’italiano Francesco Nicola Tubiello, membro della divisione statistica della FAO stessa. Anche il sesto rapporto del IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change) ha lanciato l’allarme sul riscaldamento globale provocato dalle attività umane, produzione di cibo compresa: un tema che abbiamo trattato anche noi in Quello che mangiamo è quello che inquiniamo.
Quindi, considerando che, nonostante tutto, a livello mondiale il consumo di carne è ancora in crescita e la crisi climatica non accenna a frenare, è chiaro che il sistema alimentare attuale va radicalmente trasformato, lasciando spazio alle realtà locali, piccole e medie, e recuperando pratiche agricole più rispettose della terra, incentivando, parallelamente, una riduzione delle emissioni dei vari comparti produttivi e una più equa distribuzione delle risorse. Sono soprattutto i Paesi in via di Sviluppo – coloro che, tra l’altro, inquinano meno – a subire le conseguenze climatiche e pandemiche peggiori e i primi a cogliere il nesso fondamentale tra queste problematiche e la produzione alimentare; per questo, in prima fila tra i Paesi che hanno annunciato iniziative nazionali per garantire la soddisfazione dei bisogni nutrizionali della popolazione e allo stesso tempo il raggiungimento degli obiettivi climatici e di difesa della biodiversità, ci sono, ad esempio, le Isole Fiji, ma anche le Isole Samoa, che promuovono le conoscenze tradizionali per aumentare la produzione in modo rispettoso della natura, e l’Honduras che rafforza il ruolo delle autorità locali.
Che le azioni indicate dalla FAO, e soprattutto gli strumenti individuati per attuarle funzionino o meno, i problemi di inquinamento, riscaldamento globale e malnutrizione restano, così come resta la necessità di risolverli quanto prima: criticità che toccano in primo luogo i più fragili, ma che ci riguardano tutti.
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