Dobbiamo sempre affidarci all’etichetta per capire da dove arriva un cibo che stiamo per comprare e se è di qualità, ma con il pesce possiamo fare anche altro.... Leggi tutto
Quanto pagarla, come sceglierla, come controllare l’etichetta: i consigli di un esperto per comprare bene un alimento importante. In attesa di capire come andrà con quella coltivata.
“Bisogna mangiare poca carne, ma di qualità”: Gian Paolo Angelotti, presidente di Assomacellai, lo dice due volte, all’inizio e alla fine della nostra lunga chiacchierata. E se lo dice uno che la carne la vende da oltre 50 anni, forse è davvero il caso di rivedere un po’ il nostro rapporto con questo alimento.
Con lui abbiamo parlato di carne rossa e per capire perché ci ha detto così basta un numero (ma più sotto ce ne sono altri, utili per avere il quadro della situazione): i capi di bestiame presenti in Italia coprono il 55% del fabbisogno nazionale, mentre il resto lo importiamo. Capito? Quasi la metà della carne che mangiamo non è di provenienza italiana. Perché? Perché la domanda supera di molto l’offerta. In attesa di capire se e come si diffonderà la cosiddetta carne sintetica (cos’è?) e quanto prenderà piede la carne frollata (che è ancora molto costosa), sarebbe quindi meglio ridurre i consumi “mangiare poca carne, ma di qualità”. Ma come si fa? E anche: perché Angelotti ci ha detto quello che ci ha detto?
Il punto del suo discorso è che “la carne è un alimento nobile, ricco di vitamina B, di ferro e altri nutrienti: per godere delle sue qualità non serve abusarne e non serve mangiarne tanta”. Secondo stime prudenti, oggi siamo in media a 800 grammi a testa alla settimana (indicativamente divisi così: 3-400 rossa, 2-300 bianca, 200 di salumi), con un evidente cambiamento nelle nostre abitudini: “Sino a qualche anno fa, quella rossa rappresentava il 70% dei consumi di carne, ma pian piano ci stiamo spostando verso una divisione esattamente a metà”. La carne bianca sta conquistando sempre più spazio, soprattutto perché è più gentile col nostro organismo e perché produrla ha un impatto ambientale minore, ma secondo il presidente di Assomacellai dovremmo impegnarci di più: “Dobbiamo tornare alla dieta mediterranea e a quello che facevano i nostri nonni, che mangiavano quello che avevano, cioè qualche uovo (qui le nostra guida), galline, conigli, verdure e la carne solo quando si poteva, quindi poca”. Va bene, ma quanta? “Due o tre volte alla settimana è la quantità giusta”.
Anche perché la carne, se è buona, è buona tutta, nel senso che “il suo potere nutrizionale è uguale a prescindere dal taglio: un filetto da 40 euro al chilogrammo o una svizzera da 15 ci daranno più o meno gli stessi nutrienti e le differenze sono soprattutto al palato, dal punto di vista del gusto”. L’importante è che sia di qualità, e per saperlo l’etichetta è fondamentale: “Visto che la domanda eccede l’offerta, ci sono tantissimi casi di vitelli allevati all’estero che poi vengono macellati e venduti qui - ci ha ricordato Angelotti - ma per fortuna dopo quello che è successo con la mucca pazza e l’introduzione dell’obbligo della tracciabilità, possiamo sapere da dove arriva la carne che stiamo per acquistare”. Che sia al supermercato, nel negozietto sotto casa o al ristorante, poco cambia: “Tutti sono tenuti per legge a esporre, o comunque fornire al consumatore le informazioni sul taglio di carne che viene venduto o servito, sulla sua provenienza e su dove è stato macellato”.
Ma nella pratica che cosa dobbiamo guardare? Cosa dev’essere scritto sull’etichetta, per essere certi che il prodotto sia di qualità? “Meglio diffidare di bandierine, simboli del tricolore e altri richiami al made in Italy, che sono spesso ingannevoli (succede anche con il miele prodotto all’estero e invasettato in Italia o con i pomodori inscatolati da noi, ma non italiani) e cercare scritte come Allevato in Italia o almeno Macellato in Italia, oltre ai loghi 5R (che rappresentano le 5 razze italiane, ndr) e Igp Vitellone Bianco e al bollino del ministero dell’Agricoltura: saremo abbastanza sicuri di avere comprato bene”.
E però, la discriminante fondamentale rimane il prezzo, perché anche Angelotti è convinto che “se costa poco, allora vale poco”, come su Cucchiaio.it abbiamo scritto spesso: “Una fiorentina di buona qualità può andare dai 18 ai 25 euro/kg, se costa molto di meno c’è qualcosa che non va”. Attenzione, non è una questione elitaria e non è che per forza deve costare tanto, è che non può costare troppo poco: “Un bovino adulto pesa circa 5 quintali, da cui si ricavano circa 250-300 kg di carne - ci ha spiegato il presidente di Assomacellai - Se all’allevatore viene pagato 3-4 euro al kg, chi l’ha comprato come fa a vendere 1 kg di macinato a meno di 3 euro? Come fa a guadagnarci? Come fa la carne che diamo ai nostri cani a costare più di quella che compriamo per noi?”. Di nuovo: “Se costa molto poco, evidentemente vale molto poco”, semplicemente perché sotto una certa soglia non c’è guadagno per chi la vende, a meno che chi l’ha prodotta non si sia comportato scorrettamente, magari nutrendo gli animali con sostanze vietate o magari perché quella carne che stiamo comprando non è la carne che ci dicono che è. Quindi, teniamolo come uno spartiacque: se vediamo offerte sotto i 4 euro al kg, meglio drizzare le antenne.
Stabilito questo, qual è la carne che dovremmo comprare? Innanzi tutto, il nostro esperto ci ha chiarito che anche la carne rossa ha in qualche modo una sua stagionalità, quasi come le verdure: “D’estate si vende di più il quarto posteriore dell’animale, per fare bistecche e roast-beef, mentre d’inverno è più richiesto il quarto anteriore, più indicato per la cottura medio/lunga e per preparare il brasato, il macinato, i sughi”.
In generale, il quarto anteriore ha un sapore più forte e intenso, ma visto che le proprietà nutritive sono più o meno equivalenti, “possiamo tranquillamente seguire quello che facevano i nostri nonni e andare avanti a svizzere e polpette” e concederci le parti più pregiate solo ogni tanto. Ancora: “Per il sugo si può usare il collo (tagli come matamà e reale, ndr), che costa meno ma ha gli stessi valori proteici, stando attenti che la percentuale di grasso non superi il 10-20%”, mentre “per una tartare è meglio la parte posteriore, con zero grassi e zero nervi”.
Come si vede, con Angelotti non abbiamo parlato di cambiamenti climatici e dell’impatto ambientale degli allevamenti. Meglio: non c’è stato bisogno di parlarne, perché è evidente che le sue parole, i suoi consigli, il suo invito a ridurre e a puntare più sulla qualità che sulla quantità vanno proprio nella direzione della sostenibilità. “In Italia di qualità ne abbiamo in abbondanza - ha ribadito - è la quantità che ci manca: se si riducesse la domanda, l’offerta calerebbe di conseguenza. E non saremmo costretti a importare dall’estero per stare dietro alle richieste dei clienti”. Facendoci bastare quello che abbiamo, che non è affatto poco: nel nostro Paese ci sono 6, divisi in circa milioni di bovini (di cui un paio di milioni “da carne”), 100mila allevamenti intensivi che si trovano soprattutto in 4 regioni, cioè Piemonte, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Perché? È perché serve tanto spazio per allevarli? “Più che altro, è perché serve tanto spazio per coltivare il cibo che diventerà il loro cibo”, che è il vero motivo per cui gli allevamenti più grandi (alcuni ospitano anche 10mila capi) sono concentrati lungo la pianura Padana.
E quelli piccoli, i cosiddetti distensivi? Sono più di quelli che si potrebbe pensare: “In Italia le aziende bio sono più o meno 80mila e raccolgono circa 4 milioni di polli e mezzo milione di bovini”, ci ha detto Angelotti. Che nell’ottica del comprare bene ci ha fornito anche qualche dato utile su quelle che sono davvero le razze italiane, quelle che se le compri sei abbastanza sicuro di non prendere fregature: è a loro che si riferisce la sigla 5R che dovremmo cercare sulle etichette e sono marchigiana (in totale, poco più di 50mila capi), chianina (altri 50mila), podolica (37mila), romagnola e maremmana (12mila capi ciascuna) e piemontese (60-70mila capi). E visto che il prezzo lo fa anche la disponibilità, davanti a numeri così esigui si capisce che la carne proveniente da questi animali non può che costare di più rispetto a quella che arriva da bovini più comuni e diffusi.
Piemontese (60-70mila capi)
Marchigiana (50mila)
Chianina (50mila)
Podolica (37mila)
Romagnola e Maremmana (12mila ciascuna)
In Italia il settore della carne dà lavoro complessivamente a circa 200mila persone e genera un fatturato di circa 30 miliardi di euro l’anno. Ed essere consumatori consapevoli, cioè comprare in maniera attenta e sostenibile, fa bene non solo a noi e all’ambiente, ma pure a loro. E in generale alla società: “Dobbiamo smetterla di sprecare, di comprare cibo che poi non mangiamo e buttiamo via - ci ha detto il numero uno di Assomacellai alla fine dell’intervista - Dobbiamo invertire questa tendenza che ci ha portati a fare sì che ci sia chi ha troppo e chi è sotto la soglia di povertà. Compriamo meno, ma compriamo meglio”. Che sembra un po’ uno slogan, ma ha talmente senso che come si fa a non essere d’accordo?
Si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova ed è nella redazione di Italian Tech
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