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Approvato il consumo del pollo coltivato delle startup Upside Foods e Good Meat, mentre il Regno Unito agevola le aziende che vogliono entrare nel settore. E il nostro Paese rischia di restare indietro
Prima Singapore (già nel 2021), poi Israele e i Paesi Bassi, adesso gli Stati Uniti e pure il Regno Unito: crescono di numero e di importanza, le aree del mondo dove è consentito il consumo di carne coltivata o dove le autorità sono al lavoro per favorirne lo sviluppo e l’utilizzo.
Le ultime due notizie sono molto vicine fra loro dal punto di vista temporale: fra fine giugno e inizio luglio, gli Usa e la Gran Bretagna hanno concesso il via libera all’uso alimentare della carne a base cellulare (i primi) e iniziato a ragionare su una serie di norme che ne agevolino la diffusione (la seconda). Tutto questo mentre l’Unione europea deve ancora prendere decisioni in merito e invece l’Italia va nella direzione esattamente opposta.
Andiamo con ordine e iniziamo da quello che forse è il fatto più importante: in rapida sequenza, prima l’USDA (il ministero dell’Agricoltura americano) e poi l’FDA (l’ente che si occupa di regolamentare l’uso di alimenti e medicinali) hanno concesso il loro via libera ai prodotti delle startup Upside Foods e Good Meat, che fanno carne bianca partendo dalle cellule. Fanno il pollo coltivato, che secondo le autorità sanitarie degli Usa è “sicuro da mangiare”. Così, senza tanti giri di parole.
Mancano ancora alcuni passaggi formali, compresa un’approfondita ispezione degli impianti produttivi, ma intanto “abbiamo dimostrato la piena conformità a tutti i requisiti pre-vendita” e “l'USDA ha esaminato la nostra etichetta, incluso il nome del prodotto, la lista degli ingredienti e le istruzioni per la conservazione e il trasporto, e ha concluso che è veritiera e non fuorviante”, come hanno spiegato online da Upside Foods. Quest’ultimo passaggio significa che “abbiamo soddisfatto i requisiti e gli standard federali per operare come produttore di carne e siamo autorizzati a lavorare, confezionare e vendere il nostro pollo coltivato negli Stati Uniti”.
Quello che succederà adesso è probabilmente quello che è successo a metà 2019 (anche in Italia) con la cosiddetta carne vegetale, come i burger di Beyond Meat o di Granarolo: iniziale diffusione nel mondo della ristorazione e poi lento e graduale allargamento verso i supermercati e il consumo domestico. Quest’ultimo passaggio è il più delicato non dal punto di vista normativo, che è uno scoglio già superato, quanto dal punto di vista della comunicazione: sarà necessario scegliere bene quali parole usare sulle confezioni, così come è stato necessario decidere se e quando usare i termini non-carne, plant-based, latte vegetale e simili.
Da questo punto di vista, quello che vuole fare il Regno Unito è interessante e potrebbe essere significativo: l’FSA (Food Standards Agency, l’FDA britannica) sta cercando un modo più rapido rispetto a quello dell’Ue per approvare i cosiddetti novel food, dalla farina di insetti alla carne coltivata. Non rinunciando ai controlli di sicurezza, evidentemente e da come si capisce, ma definendo con maggiore chiarezza il quadro normativo al cui interno devono operare le aziende, che così dovrebbero avere più chiare le cose da fare e gli standard da rispettare. Con la consulenza di due startup del settore, Extracellular e Multus Biotechnology, la Gran Bretagna ha anche creato una sorta di biobanca (descritta qui nel dettaglio), un deposito di tessuti già approvati per la coltivazione che possano servire come base per chi volesse avventurarsi in questo settore e anche come fonte di informazioni per i consumatori.
Come su Cucchiaio abbiamo spiegato spesso, l’ostacolo principale alla diffusione di questi prodotti sta proprio qui, ed è più culturale che sanitario: sono nuovi, e come tutte le novità possono fare paura. Soprattutto se chi li deve raccontare usa termini non corretti, fuorvianti e spaventosi.
Il caso della carne coltivata è emblematico: si chiama così, e non carne sintetica o artificiale (come viene spesso descritta dai suoi detrattori), perché nel processo produttivo non c’è alcunché di sintetico. Semplificando, viene fatta prelevando le cellule dall’animale che si vuole riprodurre (una mucca, un pollo, un maiale), le si fa crescere in bioreattori simili a quelli usati per la birra o lo yogurt e alla fine del procedimento si ha il materiale con cui preparare i tagli di carne che si vuole. Carne vera e propria, esattamente come quella che viene fuori dagli allevamenti. E carne efficiente, fra l’altro: secondo stime recenti, da ogni mucca si potrebbero ricavare 175 milioni di hamburger, invece del mezzo milione che se ne ottiene ora con la macellazione.
La carne coltivata è profondamente diversa dalla cosiddetta carne vegetale, fatta prevalentemente a base di soia o farina di piselli, combinate con cocco, oli vegetali e barbabietola rossa e che non contiene alcun ingrediente di origine animale, e invece più simile a quella stampata, che un paio d’anni fa sembrava una soluzione interessante e invece ora è stata un po’ messa da parte. Appunto perché la carne a base cellulare si è diffusa più rapidamente del previsto.
Diffusa rapidamente dove le è permesso diffondersi, ovviamente. Cioè non in Italia, almeno per il momento: dopo gli annunci fatti alla fine dello scorso marzo, il ministro dell'Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha ribadito anche a inizio luglio di essere “orgoglioso che in questi giorni sia in discussione una nostra proposta di legge che farà dell'Italia la prima nazione al mondo a vietare la produzione, la commercializzazione e l'importazione di carni sintetiche, in base a un principio garantito dall'Europa”. Il riferimento è al principio di precauzione, che secondo il ministro significa che “se una cosa non è sicura dal punto di vista ambientale o sanitario la puoi proibire, e noi l'abbiamo proibita”.
Più nel dettaglio, Lollobrigida ha spiegato che (a suo parere) la carne sintetica nasce dal principio per cui si vuole “garantire cibo a tutti, ma per noi il principio vuole essere quello di garantire buon cibo a tutti”, per “non indulgere” a un modello che vede “i ricchi fare una dieta sana”, contrariamente alle fasce deboli della popolazione.
In attesa di capire come andrà la discussione del DDL di Fratelli d’Italia, che intanto il 12 luglio scorso è stato approvato dalla commissione Agricoltura del Senato, la linea tracciata dal governo Meloni viene seguita anche da alcune amministrazioni locali. Per esempio, la Provincia di Bolzano ha approvato parzialmente una mozione (sempre di FDI) su “promozione della produzione alimentare locale e contrasto alla diffusione di alimenti e mangimi sintetici” e la commissione Agricoltura della Regione Lombardia ha dato via libera a un provvedimento simile, contro il cibo sintetico o artificiale.
Secondo Coldiretti, sono “segnali importanti contro un fenomeno, quello del cibo di laboratorio, sostenuto da aggressive campagne promosse dalle grandi multinazionali”. Secondo la comunità scientifica sono invece prese di posizione che da un lato rischiano di avere un impatto negativo sul futuro sviluppo di un’industria del settore nel nostro Paese e dall’altro non avranno alcun effetto concreto sul consumo, come ha ricordato la senatrice e biologa Elena Cattaneo, parlando di un DDL “inutile oggi, perché si riferisce a un prodotto che in Italia non c'è”, e inutile “domani, quando l’Ue darà l'autorizzazione” al commercio. Succederà, molto semplicemente, perché nessun Paese dell’Ue si può opporre alla libera circolazione delle merci nel mercato comunitario: “Finirà com’è finita con OGM e farina di insetti, che in Italia non possono essere prodotti ma che vengono regolarmente importati”, come ha sintetizzato Roberto Defez, del CNR. Finirà che l’Italia resterà indietro in un campo potenzialmente molto, molto redditizio.
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