Dobbiamo sempre affidarci all’etichetta per capire da dove arriva un cibo che stiamo per comprare e se è di qualità, ma con il pesce possiamo fare anche altro.... Leggi tutto
Con l’aiuto del fondatore di una delle poche realtà italiane attive nel settore, facciamo il punto su un cibo che da noi è arrivato oltre 3 anni fa: “Il mercato non sta morendo ma sta cambiando”.
La cosiddetta non-carne, la carne vegetale che ricorda quella vera e però non si ricava dagli animali, è arrivata in Italia fra l’estate e l’autunno del 2019: fu il periodo del debutto, prima nei ristoranti e poi nei supermercati, dei Burger di Beyond Meat, l’azienda americana che si era data l’obiettivo di rivoluzionare il mercato del cibo e contrastare il dominio dei produttori di carne.
Da allora sono passati oltre 3 anni, molte altre compagnie sono entrate nel settore, molti altri cibi sono stati imitati e riprodotti e forse è arrivato il momento di fare una sorta di bilancio: come sta andando? Come vanno le aziende? Come abbiamo accolto questi prodotti, noi consumatori? Soprattutto: cosa possiamo aspettarci dal futuro?
Intanto, visto che “le parole sono importanti” (come dice Nanni Moretti nel film Palombella rossa), va chiarito che cosa s’intende quando si parla di non-carne, carne vegetale o carne plant-based: non parliamo semplicemente dei burger fatti con le verdure, che esistono da decenni e che anche si possono preparare a casa. Parliamo di prodotti che partono sempre da ingredienti vegetali ma che simulano la carne in una maniera che sembrava impensabile, sino al colore rosso della parte interna e alla crosticina che si forma quando la si prepara sulla brace.
Riescono a farlo anche grazie all’ampio impiego della tecnologia, compresa l’intelligenza artificiale, per combinare gli ingredienti giusti nel modo giusto e nelle dosi giuste perché ricreino non solo l’aspetto, ma pure il sapore, la consistenza e la resa del cibo che si vuole imitare. Che non è solo la carne, ma pure il latte, il formaggio, le uova, il tonno, la maionese e molto altro.
Come su Cucchiaio abbiamo scritto spesso (soprattutto a partire dal 2020), negli ultimi 3 anni a questo business si sono dedicati in tanti: non solo aziende nate specificamente per questo, come le americane Beyond e Impossible Foods o la cilena NotCo, ma anche compagnie che facevano tutt’altro o che facevano addirittura l’opposto. E questo è un punto importante per capire la portata del fenomeno.
Lo hanno fatto perché il bacino di clienti per questi cibi è potenzialmente infinito: non solo vegetariani e vegani, come erroneamente si pensa (che comunque sono circa il 14% delle popolazione mondiale e il 7% di quella italiana, in lieve calo rispetto all’anno precedente), ma più che altro tutti gli altri, iniziando da quelli che, per varie ragioni, vogliono ridurre l’apporto di carne nella loro dieta, come flexitariani e reducetariani, senza però perderne del tutto il gusto: per queste persone, questi alimenti sono decisamente la soluzione. Lo sa bene la brasiliana JBS, il più grande produttore di carne al mondo, che ha messo in piedi un brand (Planterra, attivo in Europa e Sud America) per creare una sua linea di alternative vegetali ai cibi di derivazione animale, lo sa Nestlé, che utilizza il marchio Garden Gourmet per il suo non-tonno, così come lo sanno Findus, Ikea, McDonald’s, Burger King e KFC, che con alterne fortune hanno sviluppato piatti veg per i clienti. E lo sa pure Kraft Heinz, che ha recentemente svelato il Philadelphia 100% vegetale.
Non funziona solo all’estero, ma anche in Italia, anche qui con aziende di dimensioni diverse. Si va da quelle grandi o molto grandi, come Granarolo, che già a metà 2020 ha messo in vendita il suo Unconventional Burger, appunto fatto solo di ingredienti vegetali, a realtà come Food Evolution, che arriva dall’Umbria e usa un procedimento brevettato per produrre alternative a pollo, manzo e pancetta: “Da qualche tempo abbiamo deciso di presentarci non più come produttori di meat analogue (alternative alla carne, ndr) ma come produttori di proteine vegetali”, ci ha raccontato Alberto Musacchio, il fondatore.
Questo cambio di denominazione non è solo semantico ed è importante per capire dove sta andando il mercato. Che è tutt’altro che morto, come sembrerebbe a leggere i titoli di qualche giornale: “La notizia è fortemente esagerata - ci ha detto Musacchio parafrasando un celebre aforisma di Mark Twain - e nasce da due presupposti che sono veri ma vanno visti nel contesto giusto”. Quali sono? “La forte flessione in Borsa di Beyond Meat, il cui valore è calato di quasi l’80%, da 12 a 1,5 miliardi di dollari, e il fatto che nel 2022 le vendite di questi prodotti negli USA abbiano rallentato decisamente, dopo un paio d’anni di forte crescita”.
E non sono segnali preoccupanti? Non vogliono dire che forse la bolla si sta sgonfiando, oppure si è già sgonfiata? “Secondo me no”, ci ha risposto Musacchio senza tanti giri di parole. Perché? “Perché è necessario dare alle cose le giuste proporzioni: Beyond avrà pure perso l’80%, ma vale comunque un miliardo e mezzo di dollari. È un’azienda entrata sul mercato da più o meno 6 anni e che vale 1,5 miliardi: se la mia azienda valesse tutti questi soldi, farei i salti di gioia”. E la questione del rallentamento delle vendite? “Anche questa è vera, ma anche questa va vista nelle giuste proporzioni: sul mercato USA, che resta il riferimento, questi prodotti sono cresciuti del 19% nel 2020 e del 43% nel 2021 e quest’anno si sono fermati o hanno fatto registrare un lieve calo: era fisiologico che accadesse”. In che senso? “Nel senso che spesso i nuovi prodotti che arrivano sul mercato fanno così, tanto che anche il biologico fece così: un paio d’anni a mille, poi rallentamento e assestamento. Ma questo non significa che stia morendo”.
A confermarlo, secondo Musacchio, c’è soprattutto il fatto che i grossi player ci siano tutti, iniziando da quelli citati qualche riga più sopra e proseguendo con Unilever, Danone e molti altri: “McDonald’s avrà pure abbandonato il progetto del McPlant (il panino con burger vegetale, ndr) negli Stati Uniti, ma lo sta proseguendo nel Regno Unito e in alcuni Paesi europei, perché evidentemente ha capito che le potenzialità di guadagno ci sono”. Ci sono talmente tanto che anche gli analisti di Bloomberg stimano che il mercato del plant-based, che al momento è meno dell’1% dei consumi di carne, latte e formaggio, toccherà il 5% entro il prossimo decennio e arriverà a valere fra i 24 e i 25 miliardi di dollari. Del resto, le molle che hanno spinto le persone in questa direzione sono ancora tutte lì, a sostenere le previsioni di crescita: l’amore per gli animali, la cura della propria salute, la preoccupazione per l’impatto degli allevamenti intensivi sull’ambiente.
Le potenzialità ci sono pure in Italia, ma sono diverse ed è necessario saperle cogliere: “Il consumatore italiano è purtroppo un po’ diffidente e sospettoso davanti a queste novità, che è uno dei motivi per cui un’azienda come la nostra basa gran parte del fatturato sulle esportazioni”, ci ha confessato Musacchio.
Ed è anche il motivo per cui hanno scelto il cambio di denominazione raccontato sopra, che secondo il CEO di Food Evolution potrebbe essere una delle tendenze per il futuro: “Ci saranno sempre più aziende che creeranno questi prodotti per altre aziende, invece che farli e venderli loro ai clienti”. Per esempio? “Condimenti e guarnizioni per la pizza che riproducano quelli classici di derivazione animale ma a base vegetale, oppure ripieni veg per la pasta fresca”. E perché dovrebbe funzionare? “Perché la domanda delle persone per il plant-based potrà anche essersi stabilizzata ma non è sparita, e quando (per esempio) a Giovanni Rana chiederanno una linea di tortellini senza carne, dovrà farseli o farseli fare da qualcuno”.
Una cosa che secondo Musacchio invece non funzionerà, o almeno non funzionerà come spera chi la fa, è la cosiddetta carne coltivata, cioè prodotta in laboratorio partendo dalle cellule degli animali: “Secondo me i problemi sono due - ci ha spiegato - da un lato, vegani e vegetariani difficilmente la mangeranno, perché comunque è carne, anche se l’animale non viene macellato per ottenerla; dall’altro è molto, troppo complicata e costosa da produrre, che è una cosa che non credo si risolverà”. E quindi? “Se resterà così cara, i punti vendita della grande distribuzione non la vorranno, difficilmente potrà diventare mainstream e resterà molto probabilmente un prodotto di nicchia”.
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