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Gli impianti di acquacoltura ospitano più animali di tutti i mammiferi e gli uccelli presenti negli allevamenti, ma mancano leggi che regolamentino il loro benessere. E che tutelino noi come consumatori.
Ogni anno, 124 miliardi di pesci vengono allevati in vasca in tutto il mondo per essere destinati all’alimentazione umana: è oltre 15 volte la popolazione della Terra ed è un numero impressionante, che supera quello di tutti gli altri animali presenti negli allevamenti (circa 80 miliardi fra mammiferi e uccelli).
Il dato emerge dai risultati di uno studio pubblicato a inizio febbraio sulla rivista Animal Welfare, che fa capo alla Cambridge University. I ricercatori hanno preso in considerazione un intervallo di anni parecchio ampio (dal 1990 al 2019), anche scoprendo che il numero di pesci destinati all’acquacoltura non solo è enorme, ma pure è raddoppiato nell’arco di appena 12 anni: erano poco più di 60 miliardi nel 2007, sono diventati oltre 120 miliardi nel 2019. Ed è altamente probabile che oggi questo valore sia ancora più alto.
Allo studio ha partecipato anche un rappresentante di Compassion in World Farming, una fra le più grandi e importanti associazioni no-profit impegnate nella cura degli animali da allevamento, e i responsabili hanno colto l’occasione per attirare l’attenzione su alcuni aspetti significativi.
Innanzi tutto, sottolineando che “nonostante che i pesci siano ormai ampiamente riconosciuti come esseri senzienti”, la loro produzione “viene ancora quantificata in base alla massa, piuttosto che al numero di singoli animali, come invece accade con mammiferi e uccelli”. Vuol dire che le aziende coinvolte non parlano di 124 miliardi di pesci allevati, ma di 56 milioni di tonnellate di pesce prodotte.
Questa sorta di spersonalizzazione è il riflesso di un altro problema: dalla ricerca è emerso anche che per la maggioranza dei pesci presenti negli allevamenti (oltre il 70-72%) non c’è alcuna norma che stabilisca una macellazione incruenta e che meno dell'1% delle specie ha una qualche forma di tutela. Phil Brooke di CIWF ha ricordato che “si tratta di creature senzienti che non solo provano dolore e paura, ma anche un’ampia serie di emozioni”. Il punto non è che alla fine muoiono (è ovvio che sia così, visto che sono destinati a questo), ma che “la maggior parte di loro subisce morti lunghe e strazianti”.
Su Cucchiaio abbiamo scritto spesso, parlando per esempio delle aragoste o di polpi e molluschi, che il nostro rapporto con gli animali dovrebbe essere fra gli aspetti che distinguono noi da loro. Dovrebbe essere una delle cose che dimostrano che noi siamo gli umani, insomma.
Pensiamo che valga anche quando si parla di cibo: lo ricaviamo da altre specie, ma possiamo farlo in modi più sensibili, gentili e meno brutali. Iniziando per esempio “a contarli (i pesci, ndr) come singoli esemplari, invece che come una massa indistinta”, come ha sottolineato Brooke.
Se pure mancasse l’empatia per gli animali, l’enormità di questo numero dovrebbe fare comunque riflettere. Anche semplicemente nel nostro interesse di consumatori: analizzando i dati della ricerca si capisce che la maggior parte del pesce allevato arriva dall’Asia (sì: finisce anche sulle nostre tavole) e che quelli più diffusi sono salmone, persico, carpa e anguilla. Dimenticando per un attimo gli effetti nocivi sull’ambiente di tutti questi impianti di acquacoltura e l’allargamento del problema dell’allevamento intensivo dalla terra al mare, come si può pensare che da questa produzione frenetica e industriale si possa ricavare cibo buono? Come possiamo essere sicuri della qualità del salmone che pretendiamo di mangiare praticamente tutti i giorni?
Il punto in fondo è questo: dovremmo pretendere che gli animali vengano allevati con rispetto anche nel nostro interesse, perché la qualità della loro vita si traduce nella bontà della loro carne. Per dirla con le parole di CIWF, “una legislazione sul benessere dei pesci è urgente e necessaria in tutto il mondo, per garantire che tutti i pesci d'allevamento abbiano una vita degna e una morte umana”. A gennaio, l’associazione si è rivolta in particolare al Parlamento europeo, presentando il suo report sull’acquacoltura (è questo) e appunto invitando l’UE a regolamentare meglio questo settore. Che è una richiesta che ci sentiamo onestamente di sottoscrivere.
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