Dobbiamo sempre affidarci all’etichetta per capire da dove arriva un cibo che stiamo per comprare e se è di qualità, ma con il pesce possiamo fare anche altro.... Leggi tutto
Dall’Italia agli Stati Uniti, sono sempre di più le persone che cercano maggiore autonomia nella produzione di cibo e maggiore contatto con la natura: qualche consiglio per provare a farcela, senza violare le leggi
Cosa ci è mancato durante i lockdown? Ci è mancato uscire e stare all’aria aperta, costretti nei nostri appartamenti in città. Cosa abbiamo imparato dalla pandemia? Che il nostro rapporto con il cibo e con la sua produzione dovrebbe cambiare: abbiamo perso fiducia in quella intensiva e industriale e cercato modi diversi per procurarci da mangiare, più naturali e sostenibili.
Quello che ci è mancato e quello che abbiamo imparato hanno avuto due conseguenze. La prima: sempre più persone cercano di allontanarsi dalle città, preferendo vivere più a contatto con la natura, in case con uno spazio all’aperto, dove rifugiarsi nell’eventualità di altri lockdown e dove poter continuare a lavorare o studiare a distanza. Lo dicono i dati e lo immaginano architetti e progettisti. La seconda conseguenza è che sempre più persone hanno cercato e trovato modi per prodursi il cibo da sole. Parte del cibo, almeno.
Secondo una recente indagine di Coldiretti-Ixè, ormai più di 4 italiani su 10 (per la precisione, il 44%) coltivano frutta e verdura in giardini, terrazzi e orti urbani, che è un dato notevole e pure “in crescita del 18,5% in 5 anni”. Nel nostro Paese sono dedicati a questo oltre 2 milioni di metri quadrati e le ragioni sono quelle dette all’inizio: motivi economici, desiderio di ritrovare un contatto con la natura e mangiare cibo sano e anche motivi pratici e di opportunità, perché durante i periodi di quarantena questi appezzamenti di terreno erano comunque raggiungibili. Erano una ragione per cui si poteva uscire di casa, insomma.
Ricordano quelli che una volta si chiamavano “orti di guerra” o “victory gardens”: durante l’ultimo conflitto mondiale, nelle città italiane, europee e americane, proprio queste coltivazioni garantivano parte degli approvvigionamenti alimentari. Nel Regno Unito, nel 1945 c’erano circa 1,5 milioni di orti che fornivano più o meno il 10% del cibo; in Italia si ricordano quelli allestiti nei centri delle grandi città su ordine di Mussolini, che voleva che “non ci fosse un lembo di terreno incolto”. Adesso che non lo impone più nessuno, lo facciamo di nostra iniziativa, per produrre da soli lattuga, pomodori, piante aromatiche, peperoncini, zucchine, melanzane, basilico, piselli, fagioli, fave, ceci e così via.
Per rispondere a questa domanda è necessaria una distinzione: se col termine “orto urbano” s’intende uno di quegli spazi condivisi, simili alle cooperative, dove più persone coltivano più prodotti in spazi diversi, allora servono molto spazio e molti soldi; se invece si sta parlando di piccoli appezzamenti di terreno, ricavati in un angolo del giardino o del terrazzo, magari anche in verticale, allora il discorso cambia.
Nel primo caso, i prezzi dipendono dal tipo di terreno, dalla sua posizione, dalle sue dimensioni: in aree residenziali, un ettaro (cioè 10mila metri quadrati) ha un costo medio di 120/140mila euro, dunque secondo Coldiretti si può stimare che un appezzamento da 70 metri quadrati possa costare intorno ai 1000/1200 euro l’anno (cioè 13/17 euro al metro quadrato), comprese le spese per l’acqua e quelle iniziali per l’acquisto degli attrezzi.
Se un migliaio di euro sembrano troppi, c’è un altro modo: nel corso degli anni, sempre più città italiane hanno offerto ai loro cittadini la possibilità di gestire, di solito gratuitamente o pagando canoni di affitto comunque bassi, appezzamenti di verde urbano, appunto da coltivare e riqualificare: si partecipa a un bando e si ottiene un lotto in comodato d’uso per un certo periodo. Per fare qualche esempio, noi ne abbiamo trovati a Milano (dove sono anche divisi per zona) e Roma, in passato ce n’erano a Bergamo, Genova, Bologna e così via: il consiglio, se si vuole provare a seguire questa strada, è di cercare su Internet “orti urbani” e il proprio comune di residenza e scoprire se nella propria città esiste questa possibilità.
Poi c’è la soluzione dell’orto personale e fai-da-te, forse più praticabile e veloce e comunque non troppo onerosa economicamente: sempre secondo Coldiretti, per avviare un orto di 20 metri quadrati bastano circa 250 euro per l’acquisto in un negozio specializzato di terriccio, vasi, concime, attrezzi, reti, supporti, semi e piantine. Qui sono utili due consigli. Anzi, tre:
- che lo spazio dedicato alla coltivazione sia su un terrazzo o in un giardino, è fondamentale sceglierlo bene, valutando attentamente come sarà colpito dalla luce solare (come hanno spiegato bene i nostri colleghi di Domus);
- se lo spazio non è molto, può essere utile provare a pensare in verticale, invece che in orizzontale, sfruttando la cosiddetta agricoltura idroponica, che appunto richiede molto meno terreno rispetto a quella tradizionale;
- qualsiasi sia la soluzione che si sceglie e quale che sia l’investimento iniziale, è utile ricordare che dovrebbe essere ripagato piuttosto rapidamente, perché se tutto va come deve andare non sarà più necessario acquistare frutta e verdura (o comunque sarà molto meno necessario).
Vero: quella degli orti urbani non è una novità così nuova e anzi ciclicamente si torna a parlarne e a scriverne. E però quest’anno ci sono almeno un paio di aspetti che prima non c’erano: l’argomento inizia a interessare sempre più giovani (intesi come under 30/40) e proprio queste persone sono quelle che stanno dando vita a un’altra piccola, grande e interessante rivoluzione. Perché queste persone si stanno mettendo le galline in casa.
Non succede in Italia, non ancora e non così tanto, ma succede negli Stati Uniti. Succede tantissimo, negli Stati Uniti. Anche là, come qua, chi ha potuto ha lasciato le grandi città, come New York, Los Angeles, San Francisco, Cleveland, per andare altrove, per un periodo più o meno lungo o anche per sempre: il New York Times ne ha scritto a maggio 2020, raccontando che le destinazioni preferite erano il Connecticut, la Florida e il Texas. Soprattutto le aree rurali del Connecticut, della Florida e del Texas, dove, là come qua, poter cambiare vita, ritrovare il contatto con la natura, continuare a lavorare e studiare a distanza, ma in posti dove avere un po’ di spazio all’aperto.
Che cosa hanno fatto queste persone una volta arrivate nelle loro nuove residenze? Si sono messe ad allevare galline e allestire pollai domestici, così da provare a essere indipendenti dal punto di vista alimentare: lo scorso aprile, Hal Lawton, amministratore delegato di Tractor Supply, una catena di negozi per animali molto popolare negli Usa, ha raccontato alla Cnn che più o meno la metà degli 11 milioni di polli e galline venduti fra 2020 e 2021 sono stati acquistati da nuovi clienti. Da persone che prima non l’avevano mai acquistato, un pollo o una gallina. Di più: l’azienda ha visto crescere del 42,5% le vendite anno su anno, arrivando a sfiorare i 3 miliardi di dollari, e pensa che questa tendenza diventerà una costante, tanto che ha in programma di aprire 80 nuovi negozi nel corso del 2021.
Chi li ha acquistati, tutti questi polli e tutte queste galline? Soprattutto i cosiddetti Millennial, quelli che oggi hanno intorno ai 30-40 anni, che per sfuggire al coronavirus hanno comprato casa lontano dalle città: per le persone di questa generazione, gli acquisti di abitazioni fuori dalle aree urbane o nei sobborghi delle aree urbane sono cresciuti del 3%.
Ovviamente, non tengono davvero polli e galline dentro casa, ma accanto a casa: su un terrazzo molto grande o meglio ancora in giardino, nel classico backyard all’americana, dove hanno trovato spazio i pollai. Tractor Supply ha un’intera sezione dedicata a questi oggetti, con i prezzi per le strutture che vanno da circa 300 a oltre 2mila dollari. A grandi linee, le cifre corrispondono a quelle chieste in Italia, online o nei negozi fisici, ma è bene ribadire che creare un allevamento di polli o galline non significa solo comprare gli animali e i posti dove tenerli, ma pure investire soldi in molto altro, dal mangime alle zone di covata (quelle singole costano circa 15 dollari), dalla segatura per il pavimento a recinzioni, reti, fonti d’acqua e così via.
Qui però il punto non è tanto il quanto, ma il come. E anche qui, come per gli orti, è utile fare una distinzione: si vuole tenere le galline solo per le uova o anche per mangiarle? In entrambi i casi ci sono norme da rispettare, ma nel secondo sono più complicate. In linea generale, la legge italiana consente di avere sino a 10 galline senza dover chiedere alcun permesso, ma il consiglio è comunque di informarsi presso la Asl del Comune di residenza e verificare eventuali adempimenti.
Poi c’è la questione dei vicini, che ci sono pure in campagna: ci sono distanze minime da rispettare fra loro e gli animali, per ragioni legate al rumore e all’odore. Soprattutto all’odore, che è un argomento di cui nel nostro Paese si sta parlando tantissimo da alcune settimane: ci sono località, come Bellaria-Igea Marina (in Emilia Romagna), San Giorgio Canavese e San Giusto (in Piemonte), i cui residenti si sono mobilitati contro l’ipotesi di apertura di alcuni allevamenti intensivi di polli sul loro territorio. Alcuni si sono addirittura rivolti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, perché li salvi da questa invasione. Vero: qui la questione riguarda impianti industriali, ma è utile per capire l’attenzione che c’è intorno al problema e dunque che è meglio informarsi prima che finire nei guai dopo.
Qualsiasi cosa si faccia, l’importante è non tenere le galline in gabbia e lasciarle il più possibile libere di circolare: è un comportamento che l'Unione europea sta cercando di incentivare, come su Cucchiaio.it abbiamo scritto di recente e che anche ha effetti positivi sulle uova che producono. E visto che poi quelle uova si finirà per mangiarle (perché questo è lo scopo di avere un pollaio domestico), conviene tenerlo presente…
Immagine di apertura CityLife foto di Mario Tirelli
Si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova ed è nella redazione di Italian Tech
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