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Per restare al passo con i tempi, ma anche per diventare più efficiente e sostenibile, l’agricoltura è destinata a cambiare. Anzi, sta già cambiando
Quando scriviamo di cibo del futuro, di come mangeremo nel futuro o di come dovremmo mangiare adesso per rendere la nostro alimentazione più sostenibile, scriviamo (quasi) sempre di allevamenti, di produzione della carne, del latte e dei formaggi. Spesso dimentichiamo l’agricoltura, ma è un errore.
È un errore principalmente per due ragioni. Innanzi tutto, perché i campi coltivati occupano tantissimo spazio, più o meno la metà esatta della Terra abitabile (la fonte di questi dati è l’Onu, e sul Cucchiaio ne abbiamo scritto in Quello che mangiamo è quello che inquiniamo ). Poi, perché la stragrande maggioranza di questo spazio (circa l’80%) è destinata a coltivare cibo per gli animali che poi diventeranno cibo per noi.
Insomma: se vogliamo rendere più efficiente la produzione di carne, latte e formaggi, dobbiamo incominciare a monte, rendendo più efficiente l’agricoltura, che rappresenta il 10% delle emissioni inquinanti in Europa e negli Usa. Di seguito, alcune delle innovazioni più interessanti in questo campo, fra robot, intelligenze artificiali, semenze smart e vestiti fatti di piante.
Nella nostra fantasia, e nella fantasia di registi e sceneggiatori di Hollywood, i robot sono prevalentemente quelli con sembianze umane e con due braccia e due gambe, ma nel mondo reale sono un po’ di tutto: macchine gigantesche o piccolissime, braccia automatizzate, veicoli. Del resto, pure il nostro robot da cucina è… un robot.
Uno fra i più celebri è Mineral, che è stato sviluppato da Alphabet (la compagnia che controlla Google) all’interno della Divisione X, dedicata ai progetti più avveniristici: annunciato un paio d’anni fa, è poco più alto di un uomo ed è dotato di ruote che gli permettono di spostarsi sui campi coltivati. Oltre che di sensori, telecamere e fotocamere, attraverso le quali può controllare, catalogare e analizzare non solo il terreno che ha sotto di sé, ma pure ogni singola pianta. Per fare che? Per aiutare gli agricoltori a coltivare meglio, in maniera più efficiente e più sostenibile: i dati raccolti da Mineral vengono combinati con immagini satellitari e mappe meteorologiche e usati da un computer dotato di intelligenza artificiale per creare modelli previsionali e serie storiche che aiutino a capire che cosa coltivare e dove, quando pioverà e per quanto, se sarà necessario irrigare oppure no. Del resto, le IA sono brave a fare proprio questo: incamerare una quantità enorme di dati, che sarebbe ingestibile per una persona, elaborarli e anche imparare da essi e (nel caso specifico) consigliare la strategia di azione migliore.
Un’altra applicazione pratica è nello studio delle necessità (di acqua e nutrienti) di ogni singola pianta, invece che di un intero raccolto a campione. Il principio è simile a quello che sta alla base del concetto di cibo elettronico, (di cui sul Cucchiaio abbiamo scritto qualche mese fa in Che cos’è il cibo elettronico e come aiuterà chi lo produce e chi lo mangia): gestire ogni frutto come una cosa a sé permette di ottimizzare le risorse e dunque ridurre gli sprechi.
Mineral è da tempo in fase di test nelle coltivazioni di soia e di fragole negli Stati americani dell’Illinois e della California, mentre il suo “collega” FarmWise fa un lavoro diverso: creato da una start-up di San Francisco, che negli ultimi 4 anni ha raccolto finanziamenti per quasi 25 milioni di dollari e punta a ottenerne altri 20 entro fine 2021, lotta contro parassiti e piante infestanti. La macchina si occupa di diserbare e di spargere insetticidi e fungicidi sui terreni, ma in maniera più efficace e precisa rispetto a quello che farebbero gli umani. Che sembra una cosa brutta, ma è una cosa buona: in epoca di Covid, distanziamento e restrizioni, molte imprese sono state costrette a ridurre il numero di braccianti e rischiavano di non poter più proseguire il lavoro sui campi, che invece così hanno potuto portare avanti.
I robot FarmWise non vengono venduti, ma affittati (a circa 200 dollari per acro di terreno) e a oggi vengono utilizzati in più o meno la metà dei campi della zona di Salinas, uno dei “polmoni verdi” della California, da dove si riforniscono colossi come l’americana Dole, il più grande produttore di frutta e verdura al mondo.
Mineral e FarmWise sono simili perché hanno un paio di caratteristiche in comune: sono due macchine grosse e massicce e fanno il lavoro “sporco”. Ma che succede quando servono delicatezza e garbo, per esempio quando le piante vanno raccolte? La “gentilezza” è fra le caratteristiche più difficili da riprodurre in un robot, proprio per le sue caratteristiche fisiche, e uno di quelli che riesce a simularla meglio è Fieldwork. Lo fa talmente bene che l’hanno ribattezzato “Il raccoglitore di lamponi”: ha incominciato da lì, dai frutti di bosco, per poi passare ai cavolfiori, le cui foglie spesse che nascondono il “frutto” costituiscono un livello di sfida ancora più alto per una macchina, che deve capire bene dove tagliare e dove no. Per riuscirci, Fieldwork è in grado di afferrare e di staccare, è equipaggiato con sensori e telecamere 3d ed è dotato di intelligenza artificiale, cosa che gli permette di imparare dalle esperienze passate (attraverso il cosiddetto machine learning) per fare meglio in futuro.
Sviluppato dall’Università di Plymouth, in Inghilterra, al momento viene utilizzato in via sperimentale in ambienti controllati, ma dal 2022 dovrebbe iniziare la pratica sul campo (nel vero senso della parola): anche lui, come FarmWise, dovrebbe permettere alle imprese agricole di continuare il lavoro anche in assenza di manodopera o con manodopera ridotta e, sempre come FarmWise, ha alle spalle un partner piuttosto grosso, visto che la francese Bonduelle ha messo a disposizione alcuni suoi terreni per i test. C’è da dire che è ancora lento (raccoglie un frutto ogni 2,5 secondi, contro i 2 secondi di un collega umano), ma è probabilmente destinato a migliorare.
Più o meno tutte queste macchine sono in grado non solo di “ragionare” su quello che stanno facendo e su come potrebbero farlo meglio, ma anche di creare e poi seguire mappe dei campi in cui si trovano e dunque di lavorare via via in maniera più efficace. Come il robot per pulire che usiamo dentro casa, per fare un altro esempio.
Ma anche noi, inteso come chi coltiva la terra, possiamo diventare più efficaci e fare meglio quello che abbiamo sempre fatto. Incominciando dal rapporto con i campi e dal modo in cui li trattiamo. Per esempio con la pratica dell’intercropping (in italiano, consociazione), che consiste nel coltivare più colture contemporaneamente sullo stesso appezzamento. A che serve? A ottenere più raccolti in momenti diversi dell’anno, perché quando uno sta crescendo l’altro è già pronto, a permettere a una pianta di dare sostegno a un’altra, ma soprattutto a evitare di “consumare” rapidamente un terreno, come spesso succede con le coltivazioni intensive che finiscono per inaridire il suolo su cui vengono utilizzate.
Poi c’è il cosiddetto “regenerative grazing”, cioè il brucare che ha effetti benefici sui campi: è una sorta di evoluzione del grass-fed, prevede sempre che le mucche e altri animali siano liberi di nutrirsi con l’erba che trovano, e sta sempre più prendendo piede sia in Europa sia negli Stati Uniti, dove ci sono ormai numerose aziende (come Wholesome Meats) che vendono solo carne prodotta in questo modo. Funziona così: quando nascono, i vitelli vengono lasciati con le madri, prendono il latte da loro e poi sono liberi di pascolare in prati che non vengono praticamente arati (o comunque vengono arati molto poco), perché questa parte del “lavoro” viene lasciata agli animali, che la fanno in modo più delicato. Allo stesso modo, gli animali si occupano naturalmente di concimare i campi e poi su questi stessi campi vengono coltivate più colture diverse; fra queste ci sono spesso i trifogli, che hanno una capacità innata di catturare l’azoto dall’aria e immagazzinarlo. Di nuovo, rendendo la zona più fertile senza usare composti chimici. È un circolo virtuoso, invece che vizioso: permette di produrre carne in modo più sostenibile e rispettoso dell’ambiente e in secondo luogo anche di avere campi in cui praticare l’agricoltura in maniera più efficace ed efficiente.
Poi c’è il progetto I-Seed dell’Istituto italiano di Tecnologia, che si basa su minuscoli robot grandi (anzi, piccoli) come un seme, che possono essere disseminati su un terreno, penetrano in profondità oppure restano in superficie e anche vengono portati in giro dal vento. A che cosa servono? A tenere monitorati i campi: grazie ai loro sensori, possono rilevare la presenza di sostanze inquinanti e diventare fluorescenti quando le incontrano, avvertendo del pericolo grazie all’interazione con droni che potranno individuarli proprio in questi casi. L’idea è quella di permettere ai coltivatori di intervenire per tempo, prima che materiali tossici e pericolosi finiscano nel raccolto e che questo raccolto arrivi nei negozi e sulle nostre tavole: il progetto, coordinato da Barbara Mazzolai, direttrice del laboratorio di robotica dell’Iit di Pisa, coinvolge Italia, Cipro, Germania e Paesi Bassi ed è stato finanziato dall’Unione europea con 4 milioni di euro.
Non è finita: c’è il Crea, il “braccio tecnologico” del ministero dell’Agricoltura, che combatte batteri e parassiti infestanti, come la xylella o la cimice asiatica, anche con l’impiego di insetti antagonisti, come la vespa samurai; c’è la start-up israeliana Tipa che ha sviluppato un’ampia gamma di confezioni biodegradabili e compostabili per sostituire quelle in plastica comunemente usate per frutta e verdura; c’è il progetto The Uprooted dei francesi di Atelier Luma, i cui botanici e designer si occupano di raccogliere le piante infestanti e riciclarle per farle diventare stoffe, colle e coloranti naturali. E anche Beewise, un alveare equipaggiato con sensori e intelligenza artificiale, inserito dalla rivista Time fra le migliori invenzioni del 2020, capace di ospitare al suo interno circa 2 milioni di api e di sorvegliarle una per una, tenendo d’occhio i parametri vitali per intervenire (o avvertire chi dovrebbe intervenire) in caso di necessità.
Qual è lo scopo di tutto questo? Che utilità hanno robot, tecnologia, intelligenza artificiale, macchine minuscole, droni e tutto il resto? Principalmente, servono all’agricoltura per restare al passo con i tempi e anche per rispondere alle richieste dei consumatori. Oltre che alle necessità dell’ambiente. Servono a non fermarsi e a non rimanere indietro.
Innanzi tutto, come abbiamo visto, molte di queste innovazioni sono utili per poter continuare il lavoro anche in tempi difficili come l’anno appena passato. Più in generale, servono per mandarlo avanti anche riducendo al minimo l’intervento dell’uomo. Di nuovo, sembra una cosa brutta ma è una cosa buona: il lavoro di bracciante è un lavoro faticoso e usurante, che sempre meno persone sono disposte a fare, a prescindere dalla paga e dalla condizioni e pure nei Paesi più poveri e in via di sviluppo, e in prospettiva futura avere macchine che lo svolgano al posto nostro è forse l’unico modo per le imprese agricole per sopravvivere.
Poi ci sono benefici legati alla cura della Terra (intesa come il nostro pianeta): gestire i campi in maniera più “gentile”, facendosi aiutare dai computer anche nella programmazione delle coltivazioni, dell’irrigazione e così via, permetterà alle aziende di fare un business che sia davvero sostenibile. E di restare sul mercato, perché sono sempre di più i marchi del settore alimentare che pretendono dai fornitori garanzie sul rispetto dell’ambiente, della natura e degli animali, che si tratti di uova in arrivo solo da galline allevate fuori dalle gabbie (sul Cucchiaio ne abbiamo parlato qualche mese fa in Galline in fuga ) o di carne, latte, formaggi e verdure provenienti da fattorie “a inquinamento zero”, come ha deciso di fare la catena di supermercati inglesi Waitrose a partire dal 2035.
Immagine di apertura Fieldwork Robotics
Si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.
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