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Nell’ambiente è noto come “pizzaricercatore” per il suo amore per la sperimentazione, sempre però rispettando gli ingredienti: “Mai metterne più di 4-5 per volta, così chi mangia li vede bene e li assapora bene”
“Renato sarebbe potuto diventare un calciatore, era molto bravo e nel 1984, quando aveva 17 anni, fece un provino da portiere con il Milan: le cose non andarono come sperava e così l’anno dopo iniziò ad avvicinarsi al mondo della pizza”.
A parlare è Samantha, compagna di Renato Bosco, che ci ha raccontato questo aneddoto poco conosciuto su uno dei pizzaioli più noti d’Italia, Ambasciatore del Gusto e scelto nel 2015 dall’allora ministro Martina per rappresentare la nostra cucina nel mondo.
Bosco, che oggi di anni ne ha 56, è originario del veronese e ci ha sostanzialmente confermato il racconto, quando lo abbiamo incontrato nella cucina di Lipen in occasione della seconda tappa del tour Cucchiaio 23, per parlare con lui e il collega e amico Corrado Scaglione del ruolo e della vita del pizzaiolo: “Ho iniziato un po’ per caso, perché l’unica pizzeria di San Martino (San Martino Buon Albergo, ndr) cercava un aiuto come cameriere. - ci ha spiegato - Facevo quello e ogni tanto preparavo anche le pizze per i dipendenti, sino a quando mi sono ritrovato a sostituire il pizzaiolo titolare, che si era dovuto allontanare per ragioni di salute. E ha funzionato”.
Il fatto di avere iniziato “un po’ per caso” è uno dei segreti del suo successo, secondo lui: “Ero un foglio bianco, non avevo tradizioni da rispettare, generazioni di pizzaioli venute prima di me cui dare conto di quello che facevo, potevo e posso essere più libero di provare e di sperimentare”. Che è poi la cifra distintiva di più o meno tutto quello che fa, tanto che nell’ambiente è conosciuto con il soprannome di “pizzaricercatore”.
Per Bosco è importante “fare ricerca sempre, imparare, evolversi e poi condividere quello che si è imparato”. Iniziando dall’impasto: “Parte tutto da lì, dalla selezione e dalla conoscenza delle farine, che per una pizza è forse l’ingrediente più importante", ci ha spiegato. "Si ragiona su lunghe e brevi lievitazioni, si impara come fare la base e con quale tipo di cottura”.
E poi si passa a quello che i pizzaioli professionisti chiamano topping e che noi comuni mortali chiamiamo condimento: “Va dato il merito a Simone Padoan di avere dimostrato che si poteva in qualche modo aggiungere la cucina sulla pizza, metterci sopra altro cibo, altre cose preparate anche a parte”, ci ha detto ancora Bosco, secondo cui sulla pizza può stare bene più o meno tutto. A una condizione: “Si devono rispettare tutti gli ingredienti, magari alcuni li si mette a fine cottura per preservarne le caratteristiche. Se si fa così, si può fare pure con le ostriche”.
Senza esagerare, perché anche Bosco è della scuola “less is more”, meno è meglio: “Cerco di non mettere mai più di 4-5 ingredienti sulla pizza, così chi mangia li vede bene tutti e li percepisce bene, con un equilibrio giusto fra i vari sapori”. Equilibrio che a suo parere deve esserci anche fra il sotto e il sopra della pizza, fra l’impasto e il topping, che secondo lui hanno alla fine la stessa importanza complessiva: “Diciamo che contano 50 e 50. La farina è fondamentale, ma un buon topping può anche nascondere eventuali difetti dell’impasto, che non è sempre perfetto e non è sempre uguale”.
Come imprenditore, Bosco ha iniziato fra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, prima in società con altri e dal 2006 da solo, senza mai abbandonare le sue radici: oggi ha due locali proprio a San Martino, una pizzeria nel senso classico del termine e un panificio, dove si può consumare sul posto oppure ordinare da asporto. Sono a 3 minuti a piedi uno dall’altro, e la storia del loro nome merita un breve approfondimento.
Inizialmente, il marchio inventato da Bosco era Pizzadarè, inteso come “pizza da Renato” (che del resto è il suo nome), ma che evidentemente suscitava un po’ di perplessità nei colleghi. “Pensavano che volessi darmi delle arie, che quel rè avesse un che di regale, di superiore”, ci ha detto con un sorriso. Non era così, ma Bosco decise lo stesso di cambiare insegna, così adesso i suoi locali si chiamano Saporè. E nessuno si lamenta.
Il marchio, fra l’altro, si è allargato ben al di fuori del Veneto: oggi ci sono punti vendita di Saporè in piazza del Duomo, nel centro di Milano, negli aeroporti di Linate e Fiumicino e anche al Vicolungo Outlet. È merito dell’attenzione al cliente (“ogni volta che posso, vado al tavolo per spiegare come sono fatte le pizze ordinate”, ci ha raccontato Bosco), ma è soprattutto merito della qualità degli ingredienti usati e delle invenzioni di questo “pizzaricercatore”. Le più note sono Crunch e Doppiocrunch, di consistenza diversa ma entrambe ispirate alla pizza romana in teglia, e le Aria di Pane, caratterizzate da un impasto cotto al forno, voluminoso e fragrante e in cui gli ingredienti hanno un ruolo di primo piano, anche dal punto di vista visivo.
Nonostante questo, e forse un po’ stranamente, la pizza preferita di Renato Bosco è la più classica e semplice: “Amo la margherita, perché permette di capire bene la qualità dell’impasto, del pomodoro e della mozzarella che sono stati utilizzati”. Per lo stesso motivo, “la margherita è quella che ordino più spesso quando vado in altre pizzerie e pure quella su cui mi piace di più sperimentare, anche immaginando quello che ci riserverà il futuro, se magari avessimo una mozzarella più liquida, quasi da bere, o un pomodoro più consistente, quasi da tagliare col coltello”. E chissà che questa cosa non diventi davvero realtà, come spesso succede con le idee di questo pizzaiolo che a furia di sperimentare è finito pure a fare panettoni di altissimo livello. Che però è un’altra storia che magari racconteremo una volta o l'altra.
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