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Abbiamo fatto un percorso di degustazione sensoriale guidati da Salvatore Di Mento sui banchi della MEatSCHOOL. Non è stato facile ma abbiamo capito che ogni taglio di carne ha la sua storia da ascoltare con tutti i sensi
Com’è la carne buona? Magrissima, tenerissima e freschissima, sentirete dire, ma è davvero così? Se fossero luoghi comuni diventati convenzione? Uno dei modi per capire com’è la carne buona è lasciarsi guidare in un percorso di osservazione, assaggio e ascolto della materia prima. La redazione di Cucchiaio.it lo ha fatto alla MEatSCHOOL di Tombolo, sotto la guida di Salvatore Di Mento, medico veterinario, responsabile della didattica della scuola e lui stesso docente. Vi diciamo subito che è un’esperienza molto interessante ma per nulla semplice.
“Ogni tipologia di carne racconta una storia diversa a ogni persona che incontra”, ognuno di noi ha infatti una mappatura di sensazioni “che potranno essere simili a quelle di altre persone, ma mai uguali”. Come la carne non è mai uguale, perché si porta dentro un patrimonio che ne definisce le caratteristiche, a partire dalla specie per arrivare alla tipologia di allevamento e alimentazione, passando per età e sesso. "Tutta la vita dell’animale incide sulla qualità finale della carne”.
In questo scenario variabile, l’analisi sensoriale ci aiuta nella comprensione e valutazione del prodotto. Ma cos’è? Di Mento ci risponde: “è la scienza adottata per valutare gli attributi organolettici di un prodotto mediante i sensi”. Ma non è una faccenda semplice, “non solo per la descrizione del prodotto, ma anche per l’esercizio della memoria gustativa, olfattiva ed esperienziale che richiede”. Insomma, non abbiamo un repertorio di esperienze da richiamare durante l’analisi sensoriale, è un’esperienza inedita rispetto all’analisi di altri prodotti, come il vino o l’olio, più famigliari e accessibili.
Il contesto non deve influire sul risultato, questo è l’assunto. L’analisi sensoriale va svolta in un luogo neutro, silenzioso, tranquillo, con una temperatura dai 20 ai 24 gradi e un un’umidità del 50-70%. “Anche l’illuminazione conta”, ci dice Di Mento, “come l’assenza di odori intensi e sgradevoli, che potrebbero inficiare i risultati. Abbiamo individuato anche dei momenti nell’arco della giornata che sono più adatti all’analisi sensoriale, la mattina fra le 10 e le 12 e il pomeriggio tra le 16 e le 18”. Orari neutri, i più lontani dai pasti canonici. “La condizione emotiva e fisica del soggetto è importante, una salute psicofisica ottimale favorisce un’analisi senza condizionamenti. Stress e ansia influiscono negativamente sulla concentrazione”. E per finire i colori, piatti e posate bianchi e di materiale inerte, che non assorba gli odori.
“Anche tagliare la carne in un senso o in un altro, per esempio, cambia la percezione della tenerezza. Andrebbe tagliata sempre contro fibra. La carne deve essere servita a una temperatura poco più alta dei 4 gradi, per enfatizzare le componenti volatili”.
L’analisi si sviluppa in 5 fasi. La 1° riguarda la valutazione visiva della carne cruda, la 2° la valutazione olfattiva, la 3° la valutazione visiva della carne cotta, la 4° olfattiva e la 5° tattile, gustativa e retrolfattiva della carne cotta.
I tagli della nostra analisi sono la testa di filetto cubettata, non battuta al coltello perché mantenesse la sua consistenza. Una costata di chianina e una di black angus italiano. In ultimo, il lombatello, che è uno dei tagli considerati poveri, una parte del diaframma che in realtà dà grande soddisfazione.
La valutazione visiva della carne cruda è stata la più complessa da sperimentare, perché richiede competenze precise per osservare le caratteristiche del taglio, la presenza di marezzatura, la compattezza della carne, solo per fare qualche esempio. Come ci spiega il dott. Di Mento: “La prima cosa da osservare è il colore, se la carne resta a contatto con l’aria per mezz’ora, cambia colore. Si ossigena producendo ossimioglobina e assumendo un colore rosso vivo, mentre in assenza di ossigeno il colore è più brunito”. Il giudizio sulla carne deve tenere conto di questi passaggi di stato della fisiologia della mioglobina, che “lega l’ossigeno e assume una colorazione più o meno intensa”. Come dire, l’apparenza inganna, è necessario padroneggiare la materia per non alimentare i falsi miti.
I parametri del nostro percorso, in questa prima fase sono: intensità di colore, omogeneità di colore, lucentezza, finezza della fibra, venature di grasso e attraenza.
Quella olfattiva si sviluppa nella valutazione dell’intensità dell’aroma, nelle caratteristiche dell’aroma e nella presenza di odori anormali. Ma qui è complesso creare un ponte tra questa esperienza e altre, pregresse, per dare forma al confronto. “L’esperienza olfattiva sulla carne cruda è molto più soggettiva rispetto a quella della carne cotta” ci conferma Di Mento. “Nella valutazione olfattiva è importante non ripetere troppe volte l’olfata, altrimenti i recettori retronasali si saturano. Si può fare anche con la bocca leggermente aperta. Andiamo a valutare intensità e caratteristiche dell’aroma. Odori anomali (off flavours) che stonano e non dovrebbero esserci, come rancido su carni molto grasse o molto frollate o muffa. E infine l’appetibilità”.
La fase visiva della carne cotta ci avvicina a una esperienza più frequente. “Osservare la superficie del nostro taglio ci consente di verificarne il colore, brunito, grigio o bruciato. Al taglio, poi, la copiosità e il colore del liquido che fuoriesce e il colore del taglio stesso. In ultimo la dimensione delle fibre”. Va premesso che “nell’analisi sensoriale la cottura non è quella classica, occorre infatti evitare che si 'creino gusti' come capita con la reazione di Maillard, è necessario scottarla leggermente per capire la carne in sé. La cottura alla griglia (per esempio) rientra più nel tipo di analisi edonistica, nell’analisi sensoriale non dobbiamo farci influenzare da preferenze personali”. Dunque, ad esempio, il grado di colorazione al taglio dipende da quanto è stata cotta e di questo dovremmo tenere conto.
Nella fase olfattiva della carne cotta siamo invitati a distiguere presenza di vegetale e cereale. Noi profani ci aiutiamo con dei campioni di erbe in barattolo che richiamano il pascolo. Anche in questo caso dipende dalla tipologia di carne: “Le parti aromatiche, tipo erba o altri derivanti al pascolo, sono tutti aromi volatili che si legano alla parte lipidica della carne. In un animale molto magro è difficile sentire odore di pascolo”.
Che sia cruda, come la tartare, oppure cotta, l’assaggio attento richiede concentrazione nonostante ci si senta più a proprio agio.
“La sapidità: non è il salato ma l’umami.. Anche la percentuale di grassi influisce sulla sapidità. Come la fibrosità è diversa, in una tartare di fassona, nemmeno va valutata! La fibrosità è quella tenacità che capita in bocca o per taglio erroneo o per percentuale di tessuto connettivo presente nella carne. Se capita in una tartare non è molto piacevole”. E persistenza e piacevolezza? “La persistenza indica per quanto questi aromi rimangono in bocca senza cercare un altro boccone o bere acqua. La piacevolezza invece è un criterio più personale, si valuta in modo soggettivo”. Il codice gustativo della carne a cui siamo stati invitati a rispondere prevede “Tenerezza, succosità (tattile), sapidità (gustativa), grasso, fibrosità (tattile) amaro, piacevolezza”
Giunti al cuore della degustazione il gioco di impressioni che si scatena fra di noi è vivace, sentiamo la succosità, non percepiamo l’amaro e la fibrosità o scopriamo la sapidità, ogni percezione viene motivata dalla tipologia di taglio o di allevamento.
E' evidente l’assunto da cui siamo partiti, ogni taglio ha la sua storia, ma noi non siamo più abituati ed educati ad ascoltarla e questo, se ci si nutre anche di carne, è centrale per sceglierla e saperla rispettare.
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