Si tratta più di un ritrovamento archeologico, che di un assaggio: bottiglia che chissà dov'è stata, chissà come, a quale temperatura e cetera. Però s'ammira l'etichetta, con le medaglie belle epoque, lo svolazzo e l'ingenuità pre-salutistica: Barolo, "Classico". Alba. Fine delle informazioni. Non che fosse meglio, ma fa tenerezza, ecco.
Poi il tappo che va a ramengo con il cavatappi a verme: si sbriciola con puntiglio, finendo all'interno, e sospiri. Allora colino fine e decanter, che spazzolerà d'ossigeno il vecchietto dandogli, forse, il colpo di grazia.
Il vino si è rotto da mo': esce che pare un rosato, cipolla dorata precisa. Però non è nocciuola, anzi ispira l'idea che non sia defunto. E in effetti all'inizio va via lindo con sentori sottili come la pelle dei vecchi, e le venuzze in trasparenza, ma ancora integro. Sarà l'aria che con il passare dei quarti d'ora richiama una virgola agra, proprio là in fondo, e una marchiatura animale non del tutto gradevole. Ma ai vecchietti perdoni tutto, anche quel ricordo di scope dimenticate nel corridoio che copre gli aromi più nobili, eppure vivi, capaci di una chiosa stretta e ancora dura, acidofila. E quel che resta del frutto è agrume chinotto.
Anche il sorso si è fatto diafano. Diafano ma non liscio, anzi capace ancora di suscitare il senso smerigliato sulla prima parte del sorso, dichiarazione di esistenza in vita di tannini che sono stati orgogliosi; poi sale una parte quasi sciropposa, che ha attraversato l'alcool per arrivare ad una vibrazione dolce che trattiene storia e mistero. Forse la parte più debole del sorso il finale, chiuso subito da un respiro senza fiato.
Un bicchiere che sorprende per l'espressività ancora agibile. Certo non integro, abbacchiato dagli eoni. Ma ancora capace di suscitare interrogativi sul miracolo dell'uva.