Fratelli nebbiolisti, non ci sono solo i divini Barolo e Barbaresco (ed il fratellino minore Roero) nell’empireo dei grandi vini espressione di quest’uva impareggiabile. Grandi Nebbiolo li possiamo trovare in Valtellina, soprattutto tra i Valtellina Superiore Sassella (più che Grumello e Inferno) e in quella zona di fine Piemonte e inizio Vallée d’Aoste che comprende le Doc Carema e Donnas. E c’è poi l’
Alto Piemonte, con tutta quella serie di Docg e Doc, Ghemme, Gattinara, Boca, Bramaterra, Fara, Sizzano, Colline Novaresi, Coste della Sesia dove il nostro viene spesso accompagnato e stuzzicato a tirare fuori il suo meglio da una serie di altre varietà minori come Vespolina, Uva rara, Croatina, che tentano di impreziosire un corredo aromatico che sarebbe già ricchissimo di suo.
Tra queste denominazioni se si deve cercare la più importante credo sia indubbiamente quella relativa al Gattinara, Docg dal 1990, perché riferita a vini prodotti nel solo omonimo comune in provincia di Vercelli, posto ad ovest del Fiume Sesia e perché spesso i Gattinara, soprattutto quelli migliori sono prodotti senza il contributo di Vespolina e/o Uva rara (chiamata anche Bonarda di Gattinara) ma con il solo Nebbiolo, che localmente viene chiamato Spanna. Sul Gattinara, re dell’Alto Piemonte, la sua storia e le sue origini circolano mirabolanti leggende.
Si legge che i suoi primi vigneti furono impiantati dai Romani nel II secolo a.C, che l’abitato di Gattinara sorga nel luogo dove il proconsole Quinto Lutazio Catulo sacrificò alle divinità le spoglie di guerra dei Cimbri, vinti nell’estate del 101 a.C. nei pressi di Vercelli. E qui, difatti, venne eretta la Catuli Ara, Ara di Catulo, da cui presero il nome la città ed il vino. Viene da pensare che già secoli fa dovesse essere un signor vino, se il Marchese di Gattinara
cardinale Mercurino Arborio, Cancelliere di Carlo V d’Asburgo e amante del vino delle sue terre, osò presentarlo alla Corte del Re di Spagna.
E della grandezza del Gattinara, e della sua capacità di tenuta ed evoluzione nel tempo ho avuto di recente ennesima conferma grazie ad una visita nella loro cantina di Maggiora, a pochi chilometri da Borgomanero in Alto Piemonte, alla famiglia
Vallana una di quelle realtà produttive che dimostrano come tradizione sia sinonimo di qualità eccelsa. Altrimenti non si spiegherebbe come una bottiglia di Spanna di Montalbano 1955 pescata nell’eno archivio aziendale ricco di vecchie annate gelosamente conservate abbia potuto emozionare e lasciare senza fiato chi scrive e la collega wine writer e wine blogger americana
Alice Feiring (autrice del bellissimo libro
Vino (al) naturale) e nebbiolista tenace che era in mia compagnia.
I Vallana, Giuseppina Vallana e i figli Francis, enologo con un dottorato in viticoltura, Marina e Miriam, producono, senza fretta, lasciando loro il tempo di maturare e di esprimersi Colli Novaresi Spanna, Boca e Gattinara, in un’azienda esemplare, nata nel 1937 e giunta alla quarta generazione, da vigneti posti su terreni sciolti con presenza di sabbia e porfido, con quattro diversi cloni di Nebbiolo. Il loro Gattinara, vinificato in tini di cemento e poi maturato per almeno due anni in grandi botti di rovere è un rosso austero ed elegante davvero vocato al lungo ed al lunghissimo invecchiamento.
Un vino 100% Nebbiolo, perfetto per essere portato in tavola in queste festività natalizie o comunque gustato su preparazioni a base di carne (non lo vedo bene come vino per vegetariani o vegani) tipo arrosti di carni rosse o selvaggina o lessi e brasati in questi mesi invernali. Un vino emblema dalla finezza rara, colore rubino splendente, squillante, dalla lucentezza meravigliosa nell’ampio ballon, naso incredibilmente complesso eppure essenziale diretto e tagliente come la luce di un laser.
La freschezza succosa del ribes e del lampone, i toni fruttati più scuri e caldi della prugna, i chiaroscuri aromatici della liquirizia e del cuoio, del sottobosco e delle erbe aromatiche, e sorprendenti note di amaretto, di agrumi canditi, rosa passita, sino ad un qualcosa, un quid, che ricorda addirittura l’aroma di una fontina d’alpeggio. La bocca è stupenda per larghezza e pienezza succosa del frutto, per l’energia di un tannino che è ancora nervoso anche se non graffia, ma l’essenza del vino, la sua verità inimitabile, arriva da una vena salata, minerale, petrosa, da una freschezza giovanissima e piena di energia e di estro, anche se il finale, lunghissimo, persistente, è incredibilmente vellutato, avvolgente.
Come la carezza e l’abbraccio della persona che ami e che ti scalda il cuore. Come sa esserlo quell’uva ineguagliabile che è Monsù Nebbiolo.