Quaranta ettari nel Piemonte nascosto all'ombra delle Alpi: a tratti aspro. Otto etichette, tra cui questa di Ghemme. Un nome che si rifà alla purissima mitologia del vino brusco e ruvido, delle uve nebbiolo ricche di carattere.
Si presenta con quest'occhio granato e leggero, senza fittezze: lieve, deciso, puro. I barbagli scarlatti sono frequenti e convincenti, la tensione sul vetro slanciata e magra.
Il naso è una fucilata di similitudini, che s'affollano all'estuario della memoria: sopra tutto un velo alcoolico, puntuto e ficcante, ancor più insistente che persistente. In mezzo una virgola selvatica schiettissima, un puntino ematico, una mano potente e soave nello stesso tempo.
Le frutte sotto spirito sono degna chiosa di un respiro ampio e determinato.
Il sorso è deciso: si prende il lusso di tenere il palato ostaggio di un succo travolgente, subito accolto da una batteria di tannini che ricorda più la tela che la seta: e piace, questo massaggio papillare virile e durevole, instancabile. La bevuta deflagra nella seconda parte, tirando via un finale caldo, ricamato di piccanze.
Solo leggermente appoggiato nella bevibilità, un bicchiere dall'esplosiva capacità di comunicazione. Si giova di un'ossigenazione lunga e meditata.