Cinquemiladuecento bottiglie da una vecchia vigna, numerate. Ecco il preclaro Poliphemo di Luigi Tecce arrampicarsi sul vetro nel bicchiere, a cercare la luce che l'attraversa precariamente, frammentata in fulminini.
Ha questo naso stretto e fondo, che hai come la sensazione di calarti in un pozzo: muschioso e freddo, ma pronto ad accoglierti con un cesto di frutta. Una cripta ombrosa, attraversata da lame di luce. I descrittori inerti sono là in fondo, con un'idea di caffè e la sferzata alcoolica rovente aggrappata al termine. L'eleganza del tratto arriva solo dopo ore: attendilo a lungo, dopo che il tappo ha lasciato il suo alveo.
Il tempo giuoca anche meglio con il sorso: inizialmente tondo e gobbo, a tratti gommoso, s'eleva e si distrae dalla sua carne ora dopo ora, fino a raddrizzarsi ed ergersi in una postura plastica, quasi bidimensionale: la rusticità della polpa e la tensione vigorosa dell'acidità, su cui i tannini scorrono come una pezza di seta lavata. Finale che rotola lontano portandosi via la sete e la tristezza, con l'allegria arricciata di un pompelmo rosa, senza crollare esanime al cospetto dei 15°