Il titolo di questa bottiglia è criptico e autoesplicativo allo stesso tempo: Piante, e Lapìo. Piante perché nel delirio espressionista del produttore si sono cercate le viti giganti, quelle che prosperano a Lapìo da cento anni: con il piede franco prefilossera, e vanno cercate una per una: a volte come antemurale di un bersò, a volte sparse in campi infiniti.
Ma non ci perderemo a raccontare i racconti delle viti, del come e del perchè: il bicchiere basta, e avanza, a suonare la canzone più bella. Diremo - va fatto - che il fiano spremuto in queste bottiglie finisce in botti di castagno, come si faceva all'antica: e il risultato è segnato per sempre, fosse solo per per quel nerbo freddo e acidofilo che resta aggrappato al palato per settimane, teso e vibrante come una scossa elettrica.
Per dire. Un colore intenso senza essere zecchino: anzi ancora brillante, ancora caldo di sole, ancora riflesso di penombre estive. Un profumo che è profondo come un abisso e vasto come un cratere: in cui trovi smarrimenti e punti di riferimento a scelta, ma sempre senza misura. Nulla di prevedibile: anzi una composizione floreale e speziale, di tè e camomilla, di cannella dolce, di pesca matura. E la cosa va componendosi con le mezz'ore, scaturigini furiose e svirgolate roventi, come scoppi d'ilarità irrefrenabile: adorabile quel finale resinoso, resistente, lussuriosamente occhieggiante.
Poi viene l'assaggio, che s'arrampica sul palato senza pausa fin dall'abbocco, mai prevedibile: Fiano nel cuore, ma poi lanciato in iperboli che ricordano il nord della Francia, espressivo senza essere stentoreo. Fosse un colore, ne ricorderesti le ombre azzurrognole. Fosse una musica, sarebbe una danza ungherese. Fosse un viaggio, sarebbe al termine dell'universo.
Uno degli esperimenti più acchiappanti dell'enologia meridionale, anzi oso: dell'enologia in genere. Costoso, ma valevole.