Marilena Barbera mi dice Senza solfiti! e mi dice anche Solo acciaio! e non trascura di dirmi 2001! e mi manda questa bottiglia di Azimut, fatta così principalmente per autoconsumo. Al telefono c'è una piega in mezzo alla parole, mentre dice Che poi l'ha fatto mio padre, e io lo apro e lo verso e lo annuso con lo stesso attento, feroce rispetto.
Cavalca i suoi undici anni come John Makovich porta i suoi sessanta: con fervore. Ha il colore integro e pulsante del rubino granato forte, nero solo in controluce. Da lontano riluce d'alcool, se lo penetri con il nasone tutto cacciato dentro il bicchiere, senza pudore, succedono delle cose.
Asciutto che s'asciuga, con il passare dei minuti: quella punta mi matita appena temperata traluce piano, dopo aver superato il sipario d'alcool, e il prevedibile frutto conservato, e il prevedibile mallo di noci. Il finale mi sorprende, ricorda un mattonella di ceramica bagnata dalla parte di dietro. Caolino.
Il sorso poi deraglia e porta altrove. Dolce. Caldo e dolce. Perso di tannini, laggiù sottili, e dolce. Dolce da allagare il palato, premerlo, sospingerlo.
Non so: l'Azimut senza solfiti è un vino in qualche modo incompiuto, obliquo e inesatto. Ma altrettanto seducente, fitto d'interrogativi. Lo berrei solo, o con gelatine di frutta, o pecorini mediamente stagionati, o carni di bassa corte asciugate allo spiede.
Che in fondo delle modelle anoressiche finte come la plastica passate al fotosciò ne abbiamo piene le tasche.