L’ho sempre pensato e detto ad amici produttori che pure lavorano benissimo con Messer Sangiovese, in Chianti Classico, a Montalcino o a Montepulciano, non parliamo poi in Maremma, che ostinarsi a produrre Pinot nero nelle loro terre è un’assoluta perdita di tempo. Non perché non siano capaci, ma perché i loro climi e i loro terroir mal si adattano ad un’uva che non ama il caldo eccessivo, che preferisce (basta pensare all’Alto Adige o al Trentino o alle Vallée d’Aoste) climi più freschi, altezze maggiori.
Non è certo la Grande Toscana la terra ideale per esprimere grandi rossi borgognoni, anche se poi in aree marginali, come quella di Bagnolo poco distante da Prato che vide l’exploit anni Novanta del vino del Marchese Pancrazi, e poi Pomino, e l’area del Mugello, fate caso zone più alte e meno calde di quelle delle storiche Docg fiorentino/senesi, sono saltati fuori Pinot nero toschi degni di assoluto rispetto.
Un altro posto che da qualche anno, a sorpresa, ha espresso dei Pinot nero degni di questo nome è posto che pratico da diversi anni, da quando conoscendo questa località solo per la sua produzione di olio, per la pregiata Dop Olivastra Seggianese, e la collocazione ai piedi del Monte Amiata, ad una mezzoretta di strada da Montalcino, ma in provincia di Grosseto, scoprii che vi si poteva produrre un Sangiovese di smagliante freschezza e purezza, oggi proposto come Sacromonte Monte Cucco Rosso. E che a produrlo, con suprema testardaggine, grande lucidità e una scoperta voglia di fare bene era addirittura una simpaticissima donna inglese,
Charlotte Horton, la cui famiglia è imparentata con il grande scrittore
Graham Greene.
Profondamente inglesi ma innamorati della Toscana, al punto da acquistare nel 1989 e poi restaurare il Castello di Montepò a Scansano, poi ceduto a Jacopo Biondi Santi e poi innamorarsi, scovandolo in un angolo misterioso e selvaggio, e con un lavoro di restauro imponente, del Castello di Potentino. E non accontentandosi, cosa che era davvero già un’impresa da far tremare i polsi, di farlo rivivere al punto da diventare un luogo dove si organizzano eventi culturali, corsi, incontri tra giovani provenienti da tutto il mondo, ma di trasformarlo in un posto dove produrre, a 400 metri circa d’altezza, vini di qualità.
Io ne scrissi per la prima volta nel 2003, oggi il Sacromonte Monte Cucco Rosso è diventato un classico del concepire il Sangiovese in purezza in questo splendente e un po’ misterioso angolo di Toscana. Credo che altrettanto succederà molto presto, se non è già accaduto, per il Toscana IGT Piropo (nome riferito ad una varietà di granato di colore tendente al rosso fuoco o al rosso rubino, caratterizzato da accesa luminosità, utilizzato nei secoli da Marino, Tasso, Redi, Carducci, Savinio), che Charlotte ha scelto di produrre sfruttando l'aria fredda che scende ogni sera verso i vigneti, un'aria particolare, finissima e pura come di montagna, e con lo stesso tipo di vinificazione che usa per il suo Sangiovese, fermentazione in tini di legno tronco conici da 50 ettolitri, di uno speciale rovere francese, dove rimangono per un periodo di macerazione di circa due settimane e affinamento per 24 mesi in botti di rovere da 20 ettolitri, seguito da almeno altri nove mesi in bottiglia.
Nel Pinot nero, nelle primissime uscite c’era un pizzico di Alicante ora, cresciuti bene i vigneti con 5000 piante per ettaro, vigneti che come spesso accade in Toscana (e un po’ in tutto il resto d’Italia) devo lottare contro la fauna selvatica, in costante aumento, che scorrazza per le vigne, si ciba delle uve, combina danni di ogni tipo, ora viene vinificato in purezza. Con risultati emozionanti.
Stappato di recente il Piropo 2008 mi è sembrato davvero un grande vino, un Pinot nero elegante e di grande tipicità. Colore rubino brillante luminoso, piropo appunto, si apre subito nell’ampio ballon con un naso vivo, fresco, selvatico, pimpante, pieno di allegra energia, dove si colgono ribes e lampone, un carattere succoso e aperto, una naturale dolcezza espressiva, ma anche note selvatiche, boschive, che richiamano ginepro, alloro, pepe nero, una macchia mediterranea fitta da cui ti aspetteresti vedere sbucare fuori grufolando un cinghiale. E poi una precisa vena tra il salato ed il petroso.
L’attacco in bocca è altrettanto fresco, vivo, con un frutto rosso ben polputo innervato e vivacizzato da una precisa componente tannica, presente ma delicata, ed il vino progressivamente s’impone, con una naturale agilità, un suo equilibrio preciso, una pienezza di sapore e piacevolezza, con un finale lungo e ben teso, con una coda lunga viva e una componente minerale davvero spiccata. Forse non si dovrebbero produrre Pinot nero in Toscana, ma quando si fanno vini così belli allora tutto quadra e risplende come.. un Piropo…