Raggiungere la vigna di Bonavita è un piccolo viaggio: ci si arriva passando attraverso un minuscolo borgo abbandonato di poche case con un piccolo pozzo al centro, seguendo un passaggio stretto per qualsiasi automobile, attraverso il quale si sbuca su una strada sterrata a strapiombo sulla collina. E’ come se fosse un passaggio segreto che si snoda attraverso una vegetazione selvaggia quasi ostile, a proteggere il piccolo tesoro che cela tra le sue fronde nerborute e tra le erbe alte. Il sole filtra appena in alcuni tratti dove le chiome degli alberi si congiungono da entrambi i lati del sentiero. Una volta giunti a destinazione, risalendo la costa della collina lungo il sentiero tra le viti per arrivare in cima alla vigna io ho cercato di non voltarmi, per potermi girare d’un tratto verso il mare e farmi stupire dallo spettacolo. Siamo sul promontorio sopra Messina, quello che nella mitologia greca era custodito da Cariddi, insieme a Scilla il custode dello stretto temuto dai naviganti dell’Eneide.
È una giornata dal tepore mite di fine aprile e il vento oggi è di scirocco, e (come mi dice Giovanni Scarfone) infatti in Liguria piove. Niente è lasciato al caso dalla natura, e nell’aria si percepisce lo stesso alternarsi delle correnti marine: il vento porta con sé il sale facendo ondeggiare le chiome delle viti che hanno iniziato a vegetare di un verde brillante, ancora più scintillanti per il riflesso della terra che sembra quasi bianca. Le viti di questo vigneto arrampicato su una piccola terrazza “vista mare” sono come una popolazione tribale: ci sono gli anziani, tutti ritorti e rugosi, quasi attorcigliati al loro bastone ma ancora saldi e ricchi di vigore quasi a monito dei più giovani, ci sono gli adulti dall’aspetto sicuro ma di un’eleganza discreta, e infine c’è qualche piccolo, nato da ceppo antico, segno della volontà di perpetrarsi della specie. Passeggiando tra la vigna immersa in un incrocio di boschi e rivolta con orgoglio al sole, non riesco a staccarmi dal mondo mitologico classico degli uomini eroi, e penso alla poesia di Konstantinos Kavafis che parla di Itaca, meta sognata e cercata, sapendo che la vera meta in realtà è il cammino per raggiungerla.
E’ la strada che la famglia Scarfone ha intrapreso nel recupero di questa antica vigna di famiglia creando l’azienda Bonavita, decidendo di cambiare rotta rispetto al senso comune del luogo e di non cedere i terreni all’edilizia, e investendo nel progetto della vigna Bonavita quanto di più prezioso l’uomo abbia, ovvero il proprio tempo.
Il Faro 2008 è un vino di vento, di fuoco e di mani. Le mani che custodiscono questo vigneto aggrappato alla collina e il vento che fa da termostato naturale per queste piante che passano dal rigido inverno della Muntagna al fuoco del calore del sole estivo siciliano, e che allo stesso tempo porta al vigneto i racconti dei luoghi vicini attraverso i profumi del bosco e i cristalli del sale che risalgono il dorso etneo dissolti nella brezza notturna.
In questo calice rubino intenso ma limpido i profumi sono di un’eleganza austera, ritrovo l’asprignità dolce del gelso con cui mi coloravo le mani da piccola arrampicandomi sulle fronde più basse per raccoglierne i grappolini, e torna la terra, quella su cui ho camminato guardando il mare e quella del bosco accanto che era solo attorno a noi per proteggerci. I tannini sono pettini delicati che accarezzano senza graffiare e ciò che resta in bocca è il succo, reso ancora più armonico da ricordi balsamici, di timo e di delicata resina di pini di costa. È di trama fine l’armonia delle uve di Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio e Nocera, una raffinatezza che bilancia intensità e sottigliezza del sorso.
Io qui in questa vigna affacciata sul blu resterei fino al tramonto, ma anche il mio viaggio deve continuare, e forse la mia Itaca si sposta qualche metro più in là ogni giorno, per consentirmi di vedere, ascoltare, sentire col cuore e vivere gli incontri lungo la strada, e pensare in mattini accesi che siamo io e le onde, e in sere stellate che è tempo di bonaccia.