Ogni tanto capita di incontrare un bicchiere che vorresti fosse una vasca Jacuzzi, per poterci fare il bagno. Per dimenticarticisivi dentro, per perderticivisi. Vi ci si.
Quel vino oggi è il "C" di Guccione, come Catarratto. Un vino buono in modo pauroso. Buono da dire "Uh! Che buono". Che quasi sei più intento a berlo che a raccontarlo, come del resto fa il Francesco di Cerasa: Vino Bianco, e senza annata. Ma è '12, che parrebbe anche più maturo, ed è sigillato con la ceralacca, come un messaggio nella bottiglia.
Allora: nel bicchiere grande un succo che pare ambra, con venature dorate, ma d'oro vecchio vecchio. E ombre grigie.
Nel bicchiere grande gli aromi combattono una battaglia garbata per la supremazia: e a gara fanno gli agrumi: ma non la polpa e non la buccia, solo il bianco albedo. Poi, e solo un'esitazione dopo, l'idrocarburo, scuro. Poi una tensione fredda e balsamica, quasi resinosa. Poi, ancora: cangianti, il tè rosso e lo zucchero di canna, e poi e poi e poi.
L'assaggio scuote l'idea di piacevolezza dalle fondamenta: dimenticate le soavità cicisbee, "C" stordisce per linearità, per tensione nervosa che solo negli angoli del palato cerca la scossa elettrica: nel resto una breve rugginosità quasi tannica che s'appropria del palato nella scoperta intenzione di non restituirlo se non dopo lunga blandizie. E quella scioglievole sensazione oleosa che attraversa il sorso, fino al brivido finale che prosciuga e chiama il prossimo bicchiere con sgangherato entusiasmo.
Un vino che solo la moderazione anziana dello scriba trattiene dal chiamare miracoloso. Pura, polverosa, assolata, lucente Sicilia.