Poi il Guccione tira fuori questo Perricone, lo chiama "P", lo imbottiglia e lo tappa con la cera e lo manda nel mondo, il suo personale message in a bottle.
Srotolare la pergamena su cui sono scritte le poche parole, per capire cos'è questo succo senza nome, senza norma, senza dio: salvo quello dell'uva schiacciata e fermentata fino ad ottenere un liquido rosso scuro, sanguinoso, appena più indulgente sul bordo. Appena più garbato, ecco, che tutto di questo bicchiere è fuoco e vento, sole e sabbia, terra rossa riarsa e sterpi smagriti dalle brezze da sud.
Asciutto e granitico nel naso, appena concede un pausa al frutto blu di bosco: poi risalire la lava arroventata dal sole e le pietre di fuoco, e ancora l'erba officinale di qualche sperduto monastero e ancora, l'erba selvatica di qualche sentiero. Eucalipto, se vuoi, e il brivido freddo balsamico che rende miracoloso l'equilibrio di estremi.
Poi se ti resta la forza l'assaggi, ed è come se un torrente in secca ti si riversasse nella gola, alghe di fiume ingiallite e palta riarsa comprese: eppure tutto questo ritrova una composizione nel ritornello di una canzone tuareg, di cui non comprendi le parole ma il significato ti attraversa come una lama affilata molto.
Perricone: uva non preziosa in sè ma per il racconto che fa di sè. Che non finisca mai, la bottiglia, oggi.