Abbiamo visto Seaspiracy, il documentario di Netflix sulla salute del mare (che non se la passa bene)
In occasione della Giornata dell’Acqua, abbiamo visto in anteprima il film dedicato allo stato di salute del mare, che parte dalla baia giapponese di Taiji e arriva a conclusioni piuttosto fosche
Ma lo dice pure l’Onu, che come abbiamo ricordato l’anno scorso parlando dell’importanza del pesce vegetale, aveva ribadito che “quasi il 90% delle riserve marine di pesce nel mondo sono state sfruttate totalmente, anche oltre le loro capacità, o sono totalmente esaurite”. Adesso lo dice anche il documentario Seaspiracy, disponibile in Italia su Netflix dal 24 marzo, che la redazione del Cucchiaio ha potuto guardare in anteprima. Vederlo è un po’ come vedere The Social Dilemma, il film sull’influenza dei social network nelle nostre vite: è un po’ come prendere una sberla in faccia e alla fine pensare “oddio, ma davvero le cose stanno così?”.
Abbiamo cercato di guardare il film con occhio più obiettivo e distaccato possibile e proveremo a rispondere a questa domanda raccontando di che cosa parla Seaspiracy, che ha un titolo simile a Cowspiracy, il documentario sull’impatto inquinante degli allevamenti di animali (tema che abbiamo affrontato in Quello che mangiamo è quello che inquiniamo) finanziato dall’attore Leonardo DiCaprio, perché è prodotto dalle stesse persone.
Balene, delfini e l’equilibrio del mare
Allargando ancora lo sguardo, gli autori del documentario approfondiscono l’importanza dei grandi predatori acquatici per l’ecosistema del mare e pure per quello delle terre emerse e poi iniziano a parlare della pesca, di quella indiscriminata e a strascico, di quella definita “sostenibile” e di quanto lo sia davvero, della cosiddetta “pesca accidentale”, cioè dei pesci che finiscono per sbaglio nelle reti destinate ad altri pesci, dello sfruttamento del lavoro nei Paesi più poveri e anche degli allevamenti, come quelli dei salmoni in Scozia e in altre parti del mondo. Ed è qui che le cose iniziano a farsi difficili (oltre che piuttosto impressionanti). Perché? Perché l’industria della pesca, come anche quella della carne, muove interessi milionari, se non addirittura miliardari: riceve sovvenzioni dai governi, dà lavoro a tantissime persone e anche è una delle fonti principali della nostra alimentazione. Dunque è difficile distinguere bene che cosa sia vero davvero e che cosa sia, se non falso, quanto meno esagerato. Perché gli interessi in gioco sono enormi e dunque le opinioni possono essere condizionate. E condizionabili.
I problemi della pesca (e degli allevamenti)
La giusta via di mezzo sembra dunque la cosiddetta “pesca sostenibile”, quella che esclude prede accessorie, che tutela i delfini e rispetta quote e dimensioni del pescato. Che però sarebbe inesistente, almeno secondo quanto teorizzato dagli autori del documentario. Perché? Per esempio, perché per stabilire che nessun pesce è stato catturato o ferito per sbaglio ci si basa solo sulla parola dell’equipaggio del peschereccio o sul lavoro di pochi osservatori, che chiaramente non possono essere dappertutto e su tutte le imbarcazioni. Quindi i dubbi su come vengono assegnate le etichette che certificano il rispetto delle regole (che in Italia sono queste) sono in effetti leciti, come nella parte iniziale di Seaspiracy conferma un esponente dell’Earth Island Institute, una no-profit che le assegna. Vero pure che il Marine Stewardship Council, il più noto fra gli enti che sostengono la pesca indipendente, sia stato fondato da Unilever, la multinazionale che sino a qualche anno fa controllava la Findus.
Le teoria: dovremmo mangiarne di meno (o per nulla)
È vero? È vera questa cosa? È vero che se continueremo così i nostri mari saranno vuoi entro una trentina d’anni? Difficile rispondere con certezza, perché qui si esce dal campo dei numeri e si entra in quello delle stime e delle probabilità. E però è abbastanza vero che c’è qualcosa che non va, che nel Mediterraneo sicuramente non c’è più pesce a sufficienza per tutti quelli che vorrebbero mangiarlo, che se vogliamo avere il salmone in tavola tutti i giorni invece che solo a Natale (come accadeva 20-25 anni fa) da qualche parte quel salmone deve arrivare e pure che sta finendo lo spazio per produrre tutta la carne che vorremmo mangiare. Quindi, senza entrare nelle scelte personali di ognuno, forse sarebbe davvero il caso, se non di rinunciare, almeno di ridurre, di mangiare meno e farlo in maniera più responsabile, perché davvero la produzione di cibo dagli animali inizia a essere insostenibile per la Terra.
Sul Cucchiaio ne abbiamo scritto più volte negli ultimi mesi, parlando di dieta sostenibile, segnalando regimi alimentari alternativi e dando consigli su come provarli: continueremo a farlo perché crediamo sia giusto parlarne al di là delle opinioni dei singoli, perché riguardano un cambiamento che è in atto nella nostra società e anche perché “nessuno può fare tutto da solo, ma tutti possono fare qualcosa”, come dice la celebre oceanografa Sylvia Earle alla fine di Seaspiracy.