Baguette, ciabatta, tiramisù: l’Accademia della Crusca e le parole italiane che hanno conquistato il mondo

Dalla fine dell’800 a oggi, dalla pizza al cappuccino, agli spaghetti, storia delle parole del cibo che hanno fatto conoscere l’Italia nel mondo. Anche per merito di Pertini e Paolo Rossi

Business, brainstorming, smartphone, computer e pure lockdown: sono tante, tantissime, le parole straniere, prevalentemente inglesi, che usiamo quotidianamente al posto di quelle italiane. Come anche cinema, film, sport: lo facciamo da talmente tanto tempo che nemmeno ce ne accorgiamo più, del fatto che non sono “nostre”. Così come magari non ci accorgiamo di quante siano quelle italiane che hanno seguito il percorso contrario, che sono partite da qui, dallo Stivale, per arrivare là, all’estero. E rimanerci. Talmente tante che nemmeno là se ne accorgono più, che non sono “loro”.

Succede per moltissimi argomenti, ma succede soprattutto per il cibo, perché quello dell’alimentazione è uno degli ambiti dove la colonizzazione dell’italiano è più forte: secondo un’analisi su 66 lingue straniere, contenuta nel libro “L’italiano del cibo” (pubblicato a fine 2015 dall’Accademia della Crusca), gli “italianismi” di tipo gastronomico erano un quarto del totale nella prima metà del Novecento, oltre il 50% nella seconda metà e quasi il 70% alla fine del secolo. Insomma: 7 parole su 10, fra quelle italiane usate all’estero, riguardano il mangiare.

Italianismo, italian-sounding e italianismo di ritorno

Con alcune stranezze interessanti e curiose, come ci ha raccontato il professor Lorenzo Coveri, accademico della Crusca: per esempio, il fatto che pizza sia la parola italiana più conosciuta al mondo insieme con ciao, che fra quelle 66 lingue, ben 54 usino il termine spaghetti e in 40 sia presente cappuccino.

Coveri, che è stato docente di Linguistica italiana all’Università di Genova, ha una spiegazione: “Ci sono due fasi di questo processo di colonizzazione - ha spiegato al Cucchiaio - La prima sta fra fine ‘800 e inizi del ‘900, con le grandi migrazioni verso le Americhe e il cibo (e le sue parole, ndr) che era una sorta di rifugio per gli italiani che attraversavano l’Atlantico. Era un cibo di livello basso, popolare. La seconda fase è scattata all’inizio degli Anni 80, esattamente nel 1982”. Perché proprio nel 1982? “Perché quell’anno l’Italia vinse i Mondiali di calcio, era l’anno di Pertini e di Paolo Rossi: quel successo diede una grande spinta all’immagine dell’Italia all’estero, e tutti ne volevano un pezzo”. Iniziando dal cibo.

È così che nasce, o comunque acquista maggiore forza, il fenomeno degli italianismi, “nostre parole che entrano nei dizionari stranieri e dimostrano l’interesse per la nostra lingua, per il nostro Paese. Tecnicamente si chiamano prestiti… anche se magari non vengono mai restituiti - ci ha ha fatto notare Coveri con un sorriso - La Crusca ha collaboratori in tutto il mondo che segnalano quali parole italiane vengono usate all’estero e dove. Prima erano prevalentemente nei campi della musica e nell’arte, ora sono nel settore nel cibo”. Con una peculiarità in più: “Come la cucina che descrivono, molti di questi termini hanno origine regionale. Quindi spesso all’estero usano locuzioni tipiche dei nostri dialetti”.

Un’altra faccia della stessa medaglia sono i termini italian-sounding, cioè che “suonano” come fossero italiani, e però italiani non sono: fra gli esempi più noti, le t-shirt dei dipendenti di Starbucks con su scritto barista e i vari frapppuccino, mokkaccino e così via. Ma c’è di più (e di peggio): “Ci sono Paesi dove è o è stato in vendita il Regianito, che allude al parmigiano (e anche ne vìola il marchio, ndr), c’è lo spaghettello e in generale l’utilizzo del suffisso “-ello” per creare un vezzeggiativo che non esiste e mostrare apprezzamento”. Coveri è d’accordo col fatto che si tratti di “un italiano storpiato, scimmiottato, un pseudo italiano”, che però “conferma la forza che ha la nostra lingua, così come la confermano i nomi dei ristoranti all’estero, italiani anche se magari non fanno cucina italiana. Tempo fa, a Tokyo c’era un cinema che si chiamava La Borsetta: vendeva borse? No, ma il nome attirava gli spettatori”.

L’ultimo esempio è quello delle parole italiane prestate all’estero, usate là e poi tornate da noi e usate anche qui: “È il caso di baguette, che è un italianismo di ritorno”.

Dalla baguette alla ciabatta (e ritorno)

Ma come: la Baguette non è francese? In realtà no: “Il termine originale è l’italiano bacchetta, che i francesi iniziarono a usare alla fine dell’Ottocento, poi modificandolo e trasformandolo in una parola più facile per loro. Che però adesso utilizziamo pure noi”. Coveri ci ha ricordato questo e anche che noi in realtà una baguette davvero nostra l’avremmo eccome: “È la ciabatta, la nostra risposta a quel tipo di pane lì, nata all’inizio degli anni Ottanta nel Comasco, perfezionata in provincia di Rovigo e poi brevettata da un’idea dell’ex pilota Arnaldo Cavallari”. Che l’aveva avuta dai francesi e dalla loro (vabbé, anche un po’ nostra) baguette: “In un’intervista raccontò che fu lo chef Raymond Calvel a dargli le indicazioni sulle farine da usare e sul tipo di lavorazione necessaria per avere un pane croccante fuori e morbido dentro”. E dalla forma di ciabatta.

L’idea ebbe un successo enorme, tanto che in pochi anni varcò i confini nazionali, come prodotto e ovviamente anche come parola: “Nel 1985, il termine ciabatta compare già in tedesco e pure in inglese, col plurale che diventa ciabattas, e fra quell’anno e la fine del decennio la ciabatta viene venduta negli esclusivi grandi magazzini Marks & Spencer di Londra e addirittura negli Stati Uniti, attraverso una catena di panetterie con sede a Cleveland”.

Ancora: “La ciabatta è arrivata addirittura all’altro capo del mondo, in Nuova Zelanda, grazie ad alcuni giocatori neozelandesi di rugby che in quegli anni militavano nella squadra di Rovigo. E che quando tornavano a casa la portavano con loro - ci ha detto Coveri - Oggi questo processo è ancora più facile, perché grazie a Internet la diffusione delle parole e delle espressioni è ancora più rapida”. E pazienza se alcune sono un po’ “lost in translation”, come il pantofola (o addirittura pantoffola) bread venduto in Scozia. Che è una storia che però qui non racconteremo.

Friuli o Veneto? L’univerbazione del tiramisù

Non la raccontiamo perché Coveri ce ne ha raccontata un’altra più vicina a noi, sfogliando le pagine di “Tiramisù”, un libro pubblicato nel 2016, scritto da Clara e Gigi Padovani e dedicato a uno dei più celebri dolci italiani. Anzi, veneti. Anzi, no: friulani. O un po’ di tutti e due.

È una storia che inizia negli anni Cinquanta (o forse nei ‘70), fatta di cose e di parole, che dimostra una volta di più, come al Cucchiaio ha raccontato il professor Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca (qui l'intero articolo: "Sei un vegetale!" l'Accademia della Crusca ci spiega l'influenza che le parole hanno sul nostro modo di mangiare), quanto sia importante quello che diciamo, per capire quello che mangiamo.

Iniziamo dalla parola tiramisù: “L’espressione arriva da tirame su - ci ha chiarito Coveri - Da lì, attraverso un processo di univerbazione, si è arrivati alla parola tiramesu e poi a tiramisu, cui successivamente è stato aggiunto l’accento, anche se sulla preposizione su non andrebbe messo (gli americani per esempio la pronunciano senza accento, ndr)”.

Sin qui la parte facile, perché quando si cerca di capire l’origine della ricetta arriva il difficile: “Leggenda vuole che sia nata nei bordelli, forse a Treviso, per dare un po’ dienergia agli uomini - sorride Coveri - Ma resta una leggenda, perché di prove non ce ne sono, o almeno non ne sono state trovate. Ci sono invece prove che un dolce simile venne servito negli Anni 70 dal pasticcere Roberto Loli Linguanotto del ristorante Le Beccherie (sempre di Treviso, ndr), che aveva studiato a Vienna e prese ispirazione dall’antica tradizione dello sbattutin, un preparato fatto con le uova che si dava ai bambini quando erano un po’ giù”. Questo, fra l’altro, è il motivo per cui nella vera ricetta del Tiramisù non vanno messi alcolici, perché era un cibo per bambini: “All’inizio era fatto come una torta, era tondo e si tagliava a fette, ma il successo fu talmente grande che i clienti volevano portarselo a casa, da qui la decisione di farlo a porzioni, più comodamente trasportabili”. Che è poi come ci viene servito oggi nei ristoranti.

Allora il tiramisù è veneto? Mistero risolto, storia finita? Forse no: “Di recente sono state scoperte tracce risalenti agli anni Cinquanta di un dolce simile nei menù e nelle ricevute del ristorante Il Vetturino della cittadina friulana di Pieris. È il paese natale dell’ex calciatore Fabio Capello, in provincia di Gorizia, al confine con la Slovenia: si chiamava La coppa del Vetturino”. E a chi doveva dare energia, è facile capirlo.

E quindi? Al netto delle polemiche, che qualche anno fa coinvolsero pure il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, Coveri è salomonico: “Il nome è senza dubbio veneto, ma la ricetta è probabilmente friulana, perché arriva circa vent’anni prima”. Già allora non c’era alcol e si usavano i savoiardi, e poco importa che il passare del tempo abbia portato ad allontanarsi dai canoni, nel modo di parlarne e nel modo di farlo: pazienza se i cinesi, che ne vanno matti, lo chiamano “tri-mi-su”, e pazienza pure se a Pavia mettono i pavesini. L’importante è che sia buono.

Emanuele Capone si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.
Illustrazione di Davide Abbati.

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