L'agricoltura verticale per coltivare sempre e ovunque: da Dubai a San Francisco, a Milano
Le coltivazioni “fuori suolo” hanno bisogno di meno spazio e meno acqua rispetto a quelle tradizionali e permettono di produrre il cibo dove serve. Cinque esempi di successo, dalla California alla Maremma
Che cos’è l’agricoltura idroponica
Il primo vantaggio di questa agricoltura rispetto a quella tradizionale è abbastanza evidente: ha bisogno di meno spazio. Anzi, no: ha bisogno di uno spazio differente, in verticale invece che in orizzontale, colonne e colonne e colonne di pomodori, lattuga, finocchi che crescono gli uni sopra gli altri, invece che su ettari ed ettari ed ettari di terreno. Di più: ha bisogno di meno acqua, molta meno acqua. Secondo alcune delle aziende attive in questo settore, per coltivare così bastano l’1% del terreno e fra il 5% e il 10% dell’acqua che si usano per farlo nel modo tradizionale.
L’altro vantaggio è intuibile: facendo crescere le piante in capannoni che possono essere ovunque, quale che sia il clima all’esterno, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, indipendentemente dalle stagioni, si può coltivare qualsiasi cosa dappertutto e in qualsiasi momento dell’anno. Di più ancora: la si può coltivare dove serve, dove c’è la domanda, dove c’è la necessità, dove ci sono consumatori e clienti, senza dover spedire, per esempio, le banane da un capo all’altro del Pianeta.
Non solo, come detto, il concetto di agricoltura idroponica è recente, ma anche l’interesse per lei è recentissimo. E pure fortissimo: dal 2017 in avanti, gli investimenti in questo campo sono cresciuti di quasi 8 volte rispetto agli anni precedenti e le compagnie sono state finanziate con assegni da centinaia di milioni di dollari firmati da Amazon, Google, Ikea e molti altri investitori.
Dove la stanno usando, gli Stati Uniti e gli Emirati Arabi
Dentro, all’interno di uno stabilimento altamente tecnologico, interamente alimentato da energia pulita (solare ed eolica), le pareti sono più o meno tutte verdi: sono le torri, alte sino al soffitto, dove vengono fatte crescere le piante, circondate da led e mantenute alla giusta temperatura grazie a giganteschi impianti di deumidificazione. Come il Bosco Verticale di Milano, ma usato per coltivare cavolo, rucola, barbabietola, finocchio e rape. E per coltivare tanto: secondo i responsabili dell’azienda, l’impianto di San Francisco sarebbe in grado di produrre abbastanza verdure da rifornire un centinaio di negozi per volta.
Perché sia possibile, un contributo importante è dato dai robot (che stanno avendo un ruolo determinante pure nella produzione della carne, ve lo abbiamo raccontato con l' articolo Robot nei mattatoi e piantagioni di grilli coltivati dalle macchine): le coltivazioni iniziano nella cosiddetta Stanza della Crescita, da dove poi le piante vengono spostate da una macchina nell’ambiente dove saranno potate, eventualmente girate e alla fine processate per racoglierne i frutti. Tutto in maniera pressoché automatica, con il personale umano a vigilare, ma che raramente tocca o entra in qualche modo in contatto con il prodotto finito. Che forse è un pregio in più, in questo periodo di ansia da coronavirus.
Altri esempi di successo dell’agricoltura idroponica usata su scala industriale arrivano dagli Emirati Arabi Uniti, dove il clima non è mai stato (e difficilmente sarà in futuro) molto ospitale per le coltivazioni: ad Abu Dhabi, il governo ha recentemente investito 100 milioni di dollari nell’americana AeroFarms e nella Badia Farms di Dubai, che sostanzialmente cercano di fare la stessa cosa. Crescere verdure nel deserto. Meglio: al riparo dal deserto, in “fattorie” simili a quelle della Plenty, dove coltivare pomodori, lattuga, insalata, verdure di ogni tipo. Tante, verdure di ogni tipo: quando saranno a regime, più o meno entro la fine del 2020, questi impianti dovrebbero produrre oltre 3 tonnellate di vegetali al giorno.
Fra tutti, il business di Badia Farms sembra quello più progredito: nel suo stabilimento, nel centro di Dubai, le piante crescono senza luce solare, terreno o pesticidi, consumando circa il 10% dell’acqua necessaria per l’agricoltura tradizionale, e parte dei prodotti vengono acquistati dagli esclusivi ristoranti della città. La speranza (anche del governo) è che tutto continui a funzionare così, e pure meglio, in modo da rendere autonomi dal punto di vista alimentare gli Emirati, costretti a importare oltre l’80% del cibo che mangiano, parte del quale anche da zone del mondo distanti circa 5mila chilometri.
Agricoltura verticale, l’esperienza italiana
Nel nostro Paese, le realtà più importanti sono Planet Farms, un progetto di cui si parlava già nella primavera del 2019, diventato realtà con un impianto da oltre 9mila metri quadri costruito e operativo a Cavenago (a un’ora di macchina da Milano), e Agricola Moderna, una “fattoria” che sta proprio dentro a Milano, i cui prodotti sono già in vendita in alcuni supermercati del capoluogo lombardo. I concetti sono simili a quelli dei colleghi americani e arabi: piante che crescono in verticale, ambienti iper controllati e asettici, nessun bisogno di pesticidi, nessun bisogno di terreno, pochissima acqua. E poca necessità di spostare il prodotto, che viene venduto vicino a dove viene coltivato.
Poco più a sud, in Toscana, c’è una delle serre idroponiche più grandi d’Italia: è a Gavorrano, in provincia di Grosseto, e appartiene a Sfera Agricola, che produce lattuga, pomodori ed erbe aromatiche e li vende nei supermercati e (in minima parte) pure online .
Il lato oscuro dell’agricoltura “fuori suolo”
Che sono principalmente tre: il costo di realizzazione degli impianti, dotati di tutti i macchinari, le lampade e gli impianti di condizionamento è parecchio alto, nell’ordine dei milioni di euro (ecco a cosa sono serviti gli assegni di Google e Amazon di cui si parlava più sopra); gli stessi impianti, queste “fattorie” moderne, consumano molto poco in termini di risorse come acqua e terra, ma molto in termini di energia, per poter lavorare in maniera efficiente (che è il motivo per cui gli americani di Plenty usano i pannelli solari per alimentarle).
Infine, almeno con le attuali tecnologie, l’agricoltura idroponica è indicata quasi esclusivamente con le piante che hanno necessità di poco tempo per crescere, che possono essere pronte rapidamente, essere vendute e generare profitto nell’arco di pochi giorni, come l’insalata, le erbe aromatiche e simili. Per altri prodotti, come il grano, a oggi i costi di questo tipo di coltivazione sarebbero antieconomici: l’anno scorso, l’Economist stimò che un filone di pane prodotto così sarebbe stato venduto al pubblico a circa 20 euro. Decisamente troppo.
Perché ci serve l’agricoltura verticale
Innanzi tutto, l’agricoltura idroponica permette di sfuggire alla (fra l’altro crescente) imprevedibilità della natura, appunto perché si può coltivare sempre e ovunque, e anche permette di coltivare più cibo usando meno spazio. Un altro punto che difficilmente si può ignorare è che il terreno coltivabile a nostra disposizione non sta aumentando (e già ne stiamo usando tantissimo, come abbiamo raccontato in “Quello che mangiamo è quello che inquiniamo” ) mentre noi sì, che stiamo aumentando: secondo l’Onu, entro 30 anni saremo poco meno di 10 miliardi e più o meno il 60% di noi vivrà in una grande città. Ecco perché sarebbe utile avere una “fattoria” a poca distanza da casa, ed ecco perché è questo il piano di sviluppo degli americani di Plenty, che hanno intenzione di costruire 500 stabilimenti produttivi in giro per il mondo, soprattutto nei centri urbani più densamente popolati. Per portare l’offerta dove c’è la domanda, insomma.
Non è finita, perché l’idea di coltivare dove non si potrebbe coltivare, senza luce solare e con pochissima acqua, è una di quelle che permettono di immaginare la vita dell’uomo oltre la Terra, in una lunga missione nello Spazio, in una colonia chissà dove: chi ha visto il film “The Martian”, con Matt Damon che semina patate sul Pianeta Rosso, sa di che cosa stiamo parlando. Ma questa sì che è fantascienza. Per ora, almeno.
Emanuele Capone si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.
Immagine di apertura e interne Plenty