Dagli avocado alla quinoa, 8 falsi miti sul cibo smontati e spiegati

Cambiamo quello che mangiamo, ma non cambiano (o cambiano poco) i nostri dubbi, che riguardano soprattutto verdure e alternative vegetali. Che è il motivo per cui qui cerchiamo di spiegarle per bene

È difficile cambiare regime alimentare, parecchio difficile, soprattutto se lo si vuole fare in maniera seria, decisa, con impegno e costanza nel tempo. È difficile per varie ragioni, anche legate al linguaggio, come ci ha spiegato il professor Francesco Sabatini dell’Accademia della Crusca (con l'articolo "Sei un vegetale!" l'Accademia della Crusca ci spiega l'influenza che le parole hanno sul nostro modo di mangiare), ma è difficile anche perché comporta uno stravolgimento delle nostre abitudini, perché non è facile sapere quale sia quello giusto per noi, fra i tanti che si allontanano da quello onnivoro (come raccontato in Reducetariani, vegetariani, vegani: le 8 diete alternative più diffuse ), che resta il più diffuso.

È difficile pure perché ci sono ancora tantissimi dubbi su tantissimi aspetti, a incominciare da quelli legati ai cibi a base vegetale (ve ne abbiamo parlato con il pezzo Come seguire (per bene) l’alimentazione vegana e la verità sul caso della B12), che costituiscono il “grosso” delle alternative alla carne e agli altri prodotti di derivazione animale. E però l’interesse c’è, ed è pure in crescita rispetto agli anni scorsi, che è il motivo per cui qui cerchiamo di smontare alcune bugie (o mezze verità) riguardano alcuni alimenti.

Gli allevamenti inquinano, ma quelli “a erba” no

Fra i motivi per cui si sceglie di ridurre (o anche eliminare) i prodotti animali dalla propria alimentazione ci sono gli effetti benefici che questo ha sul clima, perché la produzione di carne è parecchio inquinante (abbiamo trattato questo argomento con Quello che mangiamo è quello che inquiniamo). Fra le obiezioni a questo ragionamento c’è il fatto che gli allevamenti “a erba”, quelli che gli inglesi chiamano “grass-fed”, che permettono agli animali di passare nei pascoli la maggior parte della loro vita, sarebbero molto meno inquinanti. È così? Sì e no.

Sì perché questi allevamenti non hanno necessità di togliere spazio alla natura per destinarlo alle gigantesche strutture usate per ospitare i capi di bestiame. E però no per molte altre ragioni: le mucche allevate così vivono più a lungo, dunque mangiano più a lungo, dunque hanno costi di mantenimento più alti e anche se inquinano meno, inquinano per più tempo (qualche anno fa lo dimostrò uno studio pubblicato sulla rivista Nature). Poi c’è la questione dei pascoli: secondo stime recenti dell’Università di Oxford, se sparissero e tornassero quello che erano prima (boschi e foreste), sarebbero in grado di processare ed eliminare ogni anno circa 8 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. E anche se ne tenessimo una parte per coltivare vegetali da usare per l’alimentazione umana, l’impatto inquinante sarebbe comunque enormemente più basso di quello che è ora.

La coltivazione degli avocado e la (presunta) siccità

Questo frutto è uno dei cibi più consumati da chi sceglie una dieta a base vegetale, ma non solo: la domanda è altissima, dunque l’offerta è in costante crescita e le gigantesche coltivazioni di avocado starebbero provocando la distruzione di alcune zone verdi nel mondo. Di nuovo: è in parte vero e in parte no. È vero che le piantagioni di avocado stanno sottraendo spazio a boschi e foreste in Sudamerica e che per innaffiarle si usa moltissima acqua, e però è vero anche che queste coltivazioni inquinano un terzo rispetto agli allevamenti di polli, un quarto rispetto a quelli di maiali e un ventesimo rispetto a quelli di mucche.

Non solo: proprio perché la domanda è parecchio alta, è probabile che l’offerta salga ulteriormente, con la produzione di avocado che si sposterà anche in altre zone del mondo. Senza impattare più sul solo Sudamerica.

Le coltivazioni di quinoa affamano boliviani e peruviani

Problema simile al precedente: nel mondo, la richiesta di quinoa sarebbe talmente alta che chi la consumava prima, cioè soprattutto i residenti di Bolivia e Perù, non se la può più permettere e muore di fame. Le cose non stanno proprio così: innanzi tutto, la quinoa era (è) solo una parte dell’alimentazione di queste popolazioni, che non solo possono continuare a mangiarla, ma pure hanno visto i loro redditi crescere proprio perché possono coltivarla e venderla.

Inoltre, proprio come per gli avocado, il fatto che la produzione si sia spostata, e ancora si stia spostando altrove, come in Cina, India e Nepal, sta contribuendo, se non a eliminare il (presunto) problema, almeno a “distribuirlo”.

L’olio di palma distrugge le foreste e uccide gli orango

Qui il punto è che “il cibo che piace a vegani e vegetariani fa male al Pianeta”: l’olio di palma, spesso usato da chi sceglie un’alimentazione plant-based al posto dei grassi animali, sarebbe responsabile di un’ingente deforestazione del Sudamerica. Cosa che è in effetti vera, ma non (solo) per colpa dei vegani: secondo stime recenti (come quelle dell’Iucn, l’Unione internazionale per la Salvaguardia della Natura), l’olio di palma sarebbe presente in più o meno la metà di quello che è in vendita nei supermercati, fra cibo e prodotti da bagno. La soluzione? Scegliere olio di palma prodotto in modo sostenibile, che comunque è meno inquinante della maggior parte degli altri olii.

La verità su latte di soia e latte di mandorla

Sul Cucchiaio abbiamo già dimostrato che la stragrande maggioranza della soia (più o meno il 96-97% di quella coltivata in Brasile) viene prodotta per alimentare i capi di bestiame destinati a diventare cibo per noi (con l'articolo Sfatare le fake news sulla soia), e che quindi non è vero che “usando la soia dappertutto, chi non beve latte vaccino sta devastando il mondo”.

Allo stesso modo, non è vero che la coltivazione intensiva dei mandorli per produrre l’omonimo “latte” consumerebbe tantissima acqua e farebbe morire di fatica le api, costrette dall’uomo a un impollinamento massivo ogni primavera. Meglio: è vero in California, dove portano in effetti avanti una super-produzione di mandorle, ma non è vero in altri Paesi del mondo. E comunque, latte di mandorla e latte di soia hanno una “impronta inquinante” decisamente minore rispetto a quello vaccino.

I burger di non-carne non fanno bene alla salute

L’idea è che le alternative vegetali alla carne, come gli ormai celebri burger di Beyond Meat e Impossible Foods (ma non solo loro, ne abbiamo parlato con il pezzo Pesce di banana, patatine di salmone, latte fatto dall'IA e altri cibi assurdi che puoi già mangiare ), non siano cibi sani, nonostante che siano fatti con le verdure. Cosa che è abbastanza vera, ma nel senso che non possono costituire la base dell’alimentazione di una persona, così come non lo possono essere gli hamburger di carne vera, così come non si può bere solo ed esclusivamente vino rosso a ogni pasto, così come non ci si può nutrire solo di cioccolato. Insomma: è l’eccesso che fa male, non l’eccezione.

Come abbiamo raccontato parlando del cibo ultratrasformato (La mala-evoluzione del junk food: cos’è il cibo ultratrasformato), il segreto per evitare cibi dannosi è preferire prodotti non di provenienza industriale, privilegiare frutta e verdura di stagione, riprendere a cucinare e pure masticare di più e più lentamente. A prescindere da quello che si sta mangiando.

Hamburger prodotto da Beyond Meat

La questione della vitamina B12

L’abbiamo già spiegato, ma lo ribadiamo. La B12 è fondamentale per alcune funzioni cerebrali, si trova in carne, latte e uova ed è quasi assente dagli alimenti vegetali, tanto che molti vegani usano integratori di B12. Che però è una cosa che fanno pure gli onnivori, anche se inconsapevolmente. Il punto è che la B12 si trova sì in abbondanza in carne, latte e uova, ma non è naturalmente presente lì: gli animali la producono brucando e masticando i batteri che sono nell’erba. Gli animali che pascolano. Tutti gli altri, quelli che vengono allevati in capannoni giganteschi e un prato non lo vedono mai, vengono nutriti con un mangime specifico per farli crescere robusti e in fretta, addizionato con la B12. Dunque: non si mangiano gli animali e si assumono integratori di B12, oppure si mangiano gli animali che hanno assunto loro gli integratori di B12.

Le migliaia di allevatori rimasti senza lavoro

L’ultima obiezione è di natura economica e occupazionale e riguarda tutti gli allevatori che finirebbero sul lastrico se tutti diventassimo vegani o (in misura minore) vegetariani. La relazione causa-effetto non è però così semplice. Intanto, non tutta la popolazione del mondo smetterebbe di mangiare carne tutta insieme, di colpo: sarebbe (anzi, già è) un cambiamento graduale, che darebbe alle persone impegnate in questo settore il tempo di adeguarsi e fare altro.

Sì, ma altro cosa? Produrre cibo dagli insetti, che occupano meno spazio e inquinano meno, come già stanno iniziando a fare negli Stati Uniti (ne parliamo in Robot nei mattatoi e piantagioni di grilli coltivati dalle macchine); convertire gli impianti alla creazione di burger di non-carne o altre alternative vegetali e restare nel business; impegnarsi nella cura, nella riqualificazione e nel rimboschimento delle aree prima destinate agli allevamenti; creare “santuari” o fattorie didattiche dedicate agli animali, come già sta succedendo pure in molte zone d’Italia.

Difficile, ma non impossibile, come hanno dimostrato altri settori merceologici toccati dal cambiamento e dal progresso.

Emanuele Capone si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.

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