Perché se è vegetale non si può chiamare latte? Vi spieghiamo la battaglia sui nomi dei cibi
Quella su come chiamare il cibo che mangiamo è l'ultima linea di difesa dei produttori tradizionali nella lotta contro i nuovi arrivati e le alternative vegetali, fra cause, carte bollate, accuse di violazione di copyright e video diffusi online per dividere i consumatori fra cool e sfigati
“Le parole sono importanti”, diceva il personaggio interpretato da Nanni Moretti nel film “Palombella rossa”. Lo sono eccome, anche nel settore dell’alimentazione, dove hanno la capacità di portare un consumatore verso un prodotto piuttosto che un altro.
Se ce ne fosse bisogno, lo ricorda il caso di una start-up cilena che con l’intelligenza artificiale produce alternative a base vegetale di prodotti di derivazione animale, che sulle parole ha fondato tutta la sua strategia di marketing. Anzi, proprio tutta se stessa: si chiama Not Company, Compagnia del Non, vende Non Latte e Non Maionese e sulle confezioni scrive che “This is Not Mik” e “This is Not Mayo”. Perché il suo giovane fondatore ha deciso di fare così? Probabilmente anche per evitarsi noie legali da parte dei produttori di latte e maionese: dichiarando apertamente che “Questo Non è Latte”, spera di non essere trascinato in tribunale da chi vende latte di mucca e sta facendo di tutto per eliminare dagli scaffali dei negozi i vari “latte di” (soia, avena, riso, mandorla e così via). Perché è sui nomi che i produttori tradizionali hanno tracciato la loro ultima linea di difesa.
Lo fanno perché l’altra parte della guerra, quella sul mercato, la stanno perdendo. Lentamente, ma inesorabilmente. Dal 2002 (i dati sono della FAO, aggiornati al 2017), il consumo di latte è sceso mediamente di quasi il 4% nell’Europa occidentale: di oltre il 9% in Svezia (uno dei principali consumatori), di quasi il 15% in Francia, di più dell’8% in Italia; ancora peggio va negli Stati Uniti, dove dagli anni Cinquanta il latte fa parte della “dieta consigliata” per grandi e piccini, ma dove il consumo è calato del 5-15% a seconda delle zone. Ai produttori di carne non va meglio: soltanto in America, con gli allevamenti bloccati e gli impianti di macellazione chiusi a causa dell’emergenza coronavirus, le stime parlano di cali a due cifre nella produzione di manzo, maiale, pollo, che dunque non arrivano nei supermercati, non possono essere comprate, non possono essere mangiate. Tutto questo mentre i produttori delle corrispondenti versioni “plant-based” fanno affari d’oro.
Se non puoi batterli... prova a imitarli
E quindi? E quindi le varie Tyson Foods, Kellogg, Perdue, Jbs (è brasiliana, ed è la più grande azienda di lavorazione della carne al mondo) hanno iniziato a imitare la concorrenza, buttandosi anche loro nel settore delle “alternative”. Con un problema in più, di nuovo legato alle parole, ai nomi, al linguaggio: se Beyond Meat, Impossible Food e Moving Mountains possono vendere burger a base vegetale facendo leva sulle questioni etiche (il rispetto per l’ambiente e per gli animali), loro chiaramente non possono, perché la macellazione resta ancora il “core business”. Si sono dunque concentrate sull’aspetto sanitario, su chi vuole ridurre il consumo di derivati animali per ragioni di salute, e soprattutto sulle parole, cercando in qualche modo di ridefinirsi: “Stanno pian piano smettendo di descriversi come produttori di carne - ha spiegato a fine 2019 il professor Robert Martin, del Centro per il Futuro sostenibile della Johns Hopkins University - per diventare ‘produttori di proteine’”.
Tutto questo, sempre senza smettere di combattere a colpi di avvocati, carte bollate e ingiunzioni una battaglia partita in qualche modo dai social network, un altro campo dove “le parole sono importanti”: per i produttori di carne e latte, il grosso delle truppe è storicamente costituito dai clienti, da quelli che se posti su Facebook la foto di una carbonara-veg commentano che “non lo devi chiamare guanciale, se è fatto con la verdura” o che “se non viene dalla mucca, allora non è latte” e ovviamente che “senza le uova, che maionese è?”, cui poco importa che le alternative vegetali si chiamino come le controparti tradizionali perché vengono usate allo stesso modo, cioè per condire la pasta, fare colazione, guarnire un panino. Da lì, lo scontro si è spostato in televisione e su YouTube: nel Nord Europa, gli allevatori che fanno capo all’Arla (una multinazionale con sede in Danimarca) hanno prodotto alcuni spot per prendere in giro chi beve il latte d’avena, mettendolo a confronto con chi usa quello di mucca, facendo sembrare sfigati i primi e cool i secondi e pure creando una serie di parole che non esistono, ma che in modo dispregiativo fanno il verso a quella svedese che significa latte.
Com’è finita? In Svezia, con gli allevatori della Lrf che hanno citato in giudizio la Oatly (latte d’avena) per impedirle di usare la parola “latte” e con la Oatly che ha coperto col copyright i termini inventati per prenderla in giro, così da impedirne l’utilizzo, e a inizio 2019 ha addirittura accostato la dipendenza dal latte alla dipendenza dall’alcol. Una vera e propria escalation, come in una vera e propria guerra.
L’intervento dell’Unione europea
A questa litigiosità non sono immuni neppure i nuovi arrivati, visto che Impossible Foods ha trascinato in tribunale Nestlé proprio in Europa, vincendo a inizio giugno la causa in cui chiedeva che fosse impedita la commercializzazione degli Incredible Burger, ritenuti dal nome troppo simile a quello degli Impossible Burger.
Tornando alla questione delle parole, per i “produttori di proteine” il problema è che anche quella sul piano semantico potrebbe essere una partita già persa, perché il linguaggio, oltre a essere ricco (di sinonimi), è pure in continua evoluzione: se non si può usare latte, si userà “Non Latte”; se non si può scrivere “meat” per le alternative alla carne, l’azienda che le produce si chiamerà Beyond Meat, perché va “oltre la carne”; se non va bene formaggio, andrà bene caciotta, cashewttina se è fatta con gli anacardi (cashew, in inglese), oppure “mozzarisella” al posto di mozzarella. È un continuo inseguirsi, cui alla fine non hanno potuto fare altro che adattarsi pure le aziende di carne e latte: il colosso americano Hormel, dopo avere passato gli ultimi 128 anni a produrre prosciutti, insaccati e carne in scatola, a fine 2019 ha messo in vendita burger vegetali col marchio Happy Little Plants. Proprio così: Piccole piantine Felici. Perché le “parole sono importanti”... soprattutto per non perdere clienti.
Emanuele Capone si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.
Illustrazione di Davide Abbati.